La posta in gioco nel referendum

CESARE SALVI-di CESARE SALVI-

La posta in gioco nel prossimo referendum costituzionale si allontana sempre di più dal giudizio sul contenuto della riforma. Renzi ne ha fatto un plebiscito sulla propria leadership; al tempo stesso, gli alleati del PD (i partiti di Alfano e Verdini) fanno chiaramente intendere che considerano gli schieramenti sul referendum la prova generale delle elezioni politiche: si candidano cioè a governare con il PD nella prossima legislatura, sia se sarà cambiata la legge elettorale ridando spazio alle coalizioni, sia se resterà immutata, puntando sul superamento della soglia di sbarramento e una coalizione in Parlamento dopo il voto.

I sostenitori del no discutono degli argomenti da utilizzare nella campagna referendaria. È evidente che il problema è la democrazia. Ma non è agevole argomentarlo. 70 anni fa il referendum istituzionale proponeva una scelta chiara: monarchia o repubblica? Oggi la portata della scelta è meno chiara, ma è certo che, pur senza fare paragoni con il 1946, è molto più rilevante di quanto si pensi: il risultato condizionerà la prossima storia italiana.

Il punto è che oggi la questione della democrazia si pone – fortunatamente, bisogna dire – in termini molto diversi che negli anni ’30 del secolo scorso. Il pericolo non è una brutale dittatura che elimini elezioni e diritti di libertà.

La tendenza che sta emergendo in Europa è la manipolazione delle Costituzioni per ridurre gli ambiti di effettiva libertà e partecipazione politica, concentrando –attraverso modifiche costituzionali realizzate con procedure formalmente legali – il potere negli esecutivi e nella persona del capo del governo. Corte Costituzionale, magistratura, pluralismo del sistema informativo (a partire dal servizio pubblico), nomina dei dirigenti dello Stato: sono questi i terreni privilegiati di intervento per realizzare l’obiettivo. Ungheria e Polonia sono gli Stati nei quali l’operazione si sta dispiegando con maggiore evidenza, ma non gli unici. Nella stessa Francia il governo propone una riforma della Costituzione che appare a molti un pretesto per ridurre la libertà a favore dell’esecutivo. Su queste tendenze occorre richiamare l’attenzione. Sono già all’opera con il governo Renzi: pensiamo alla nuova legge sulla Rai, ai cambiamenti nelle regole della pubblica amministrazione, ai nuovi criteri di nomina dei giudici costituzionali.

Soprattutto sono le modalità stesse con le quali si sta procedendo all’approvazione della riforma che segnalano l’inquietante novità. Si tratta di una costituzione di minoranza, approvata da un Parlamento eletto con un sistema dichiarato illegittimo dalla Consulta, attraverso una serie di forzature istituzionali e politiche, alle quali si è piegata (tranne pochissime eccezioni) la minoranza del PD. Il voto referendario, si dirà, dovrebbe essere la sanatoria di questo anomalo percorso.

Nel frattempo si sentono strani ragionamenti. Editorialisti di grandi quotidiani elogiano il fatto che finalmente una riforma costituzionale è stata approvata. Non solo prescindono dal merito, ma dimenticano che una riforma costituzionale fu già approvata dal governo Berlusconi, e poi fortunatamente bocciata dal referendum.

Si ricorda che il Pci era favorevole al monocameralismo, ma non si dice che era anche per la legge elettorale proporzionale (il Parlamento deve essere “lo specchio del paese”, si diceva), e, com’è chiaro, la differenza nei sistemi elettorali è decisiva per l’equilibrio del sistema.

Si dice anche che il superamento del bicameralismo paritario consentirà finalmente decisioni rapide ed efficienti. Ora , a parte il fatto che il testo ora approvato complica, non semplifica, il procedimento decisionale del Parlamento, si dimentica che negli anni del bicameralismo paritario e della proporzionale, se è vero che i governi cambiavano spesso (ma molto meno spesso le coalizioni che li sostenevano e gli indirizzi politici), furono approvate in tempi ragionevoli riforme importantissime, attuative dei principi costituzionali: l’elenco sarebbe molto lungo (Statuto dei lavoratori, sistema sanitario, scuola media unificata, divorzio, aborto, diritto di famiglia, ecc.). E anche negli anni del maggioritario il bicameralismo non ha certo impedito (in molti casi bisognerebbe dire: purtroppo) l’approvazione di leggi volute da governo e maggioranza.

Renzi ha posto la propria persona al centro del voto referendario. Anche questo è un punto di democrazia da sollevare: non per contestargli questa impostazione (del resto ineludibile, e in una certa misura anche coraggiosa), ma per ricordare che in democrazia nessuno è insostituibile. Se egli si dovesse ritirare, subentrerà un altro presidente del Consiglio.

De Gaulle giocò una partita analoga nel 1969, su un referendum istituzionale da lui voluto. Perse, e dopo di lui venne un altro (Pompidou). “Dopo di me il diluvio” non portò fortuna.

Insomma la posta in gioco non è la democrazia in astratto, ma un modello di democrazia che riduce la partecipazione dei cittadini e gli equilibri istituzionali a favore dei poteri del decisore investito del mandato popolare. E, correlativamente, l’evoluzione del sistema politico italiano: neocentrismo o rinnovato ruolo di una sinistra competitiva.

Certo, non sarà facile contrastare gli accattivanti slogan che già vengono annunciati e si accentueranno nei prossimi mesi. La compagnia delle forze contrarie al testo del governo è variegata e non accattivante. Spetta alla sinistra rendere chiaro il nesso tra modelli di democrazia e questione sociale, la ulteriore riduzione delle tutele sociali e del lavoro che seguirebbe al consolidamento, se vincesse il si, del decisionismo e del neocentrismo che già vediamo all’opera, accentuati ma non inventati dal governo Renzi.

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