“L’estate sta finendo” cantavano i Righeira nel 1985, e quella del 2017, in Sicilia, sarà ricordata oltre che per i roghi, la penuria d’acqua e gli sbarchi dei migranti, anche (e forse soprattutto!) per la rappresentazione quasi plastica dell’impotenza della classe politica isolana, in uno con quella nazionale, con il confronto tra le forze politiche in vista delle elezioni regionali del 5 novembre, segnato dall’assenza di qualsivoglia dibattito su idee e programmi, tranne qualche isolata e lodevole eccezione, e l’attenzione esclusiva sulla composizione delle coalizioni e, in particolare, sulla scelta del candidato a presidente della Regione siciliana.
Nella Prima Repubblica si diceva che il “Generale agosto” serviva a rinviare le decisioni, e a consentire dietro le quinte di definire accordi, ma nella fallimentare Seconda Repubblica la pausa feriale, come dimostrano i fatti, ha generato una palude in cui la politica siciliana si è impantanata. Anche per la Sicilia dunque, è in atto, e da lunga pezza ormai, una crisi drammatica della rappresentanza politica e di sigle invero solo simulacro di partiti, intesi un tempo come luogo di elaborazione di strategie e di selezione di classe dirigente sulla base di identità storico-culturali e di progetti di società, che evoca quella “Post-democrazia” descritta in forma rigorosa dal sociologo e politologo tedesco Colin Crouch, come una democrazia meramente formale, segnata da basso livello dei votanti, assenza di partecipazione, esproprio delle decisioni da parte delle tecnocrazie e della finanza.
E d’altra parte, cosa è l’insistito richiamo al cosiddetto “civismo”, se non anche la rinunzia da parte della politica a selezionare nuova classe dirigente, per ricercare, invece, soggetti estranei al sistema politico, ancorché sempre contigui per incarichi istituzionali, consulenze e, anche, business?
In questo quadro la sinistra si presenta confusa, incerta e divisa, con una chiara propensione “tafazziana”, mentre vecchie maschere della politica isolana si auto-attribuiscono funzioni demiurgiche, che condurranno alla sconfitta.
E così, oltre alla tradizionale rappresentazione del “Gattopardo” per la Sicilia, in cui come dice Tancredi al principe di Salina “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, sembra andare in scena il “Teatro dell’assurdo” di beckettiana memoria e i cittadini siciliani, sempre più impoveriti e insicuri, con il costante flusso migratorio di giovani che cerca lavoro e affermazione professionale fuori dalla nostra Isola, “en attendant Godot”, inteso come colui che non arriva, nel caso concreto una classe dirigente in grado di invertire il negativo ciclo economico e sociale e generare, finalmente, sviluppo e occupazione.