Occupazione: ma i trionfalismi sono infondati

-di SANDRO ROAZZI-

Occupati oltre i 23 milioni a luglio. Non accadeva dal 2008. Esultano i soliti tweet, più pacato il giudizio di Padoan: ripresa in via di consolidamento ma occorre passare da quella ciclica a quella strutturale. Insomma il tratto più impegnativo della salita è ancora da fare. Anche perché nell’ultimo anno gli occupati sono cresciuti di 378 mila unità, ma ben 371 mila erano lavoratori ultracinquantenni, quelli che sbattono da tempo contro il muro della legge Fornero che preclude loro l’accesso alla pensione. Dove siano le mirabili gesta del Jobs Act stando a questi dati Istat è un mistero. E quanto possano mutare questo scenario i bonus previsti è difficile da prevedere.

Inoltre non partecipano alla festa donne e giovani. Le prime perché concorrono quasi esclusivamente all’aumento della disoccupazione che sale all’11,3% anche per effetto del calo degli inattivi, una sorta di pendolo del mercato del lavoro in continua oscillazione. I giovani, perché il tasso di disoccupazione sale oltre il 35%.

Un altro dato dovrebbe consigliare prudenza prima delle… ovazioni rituali: sempre in un anno si sono persi 84 mila posti di lavoro indipendenti, un trend che risente anche delle trasformazioni tecnologiche e del declino delle micro-imprese commerciali, i negozi di vicinato. L’aumento della disoccupazione per giunta non può certo essere ascritto solo all’irrompere sul mercato del lavoro di ex-inattivi. Se si osservano le classi di età si scopre che la fascia attiva per eccellenza, quella dei trentenni e quarantenni, continua a perdere colpi. E qui pesano le ristrutturazioni e le chiusure di aziende che nascondono anche crepe nel sistema economico che meriterebbero più attenzione.

Che la situazione sia migliorata è innegabile, ma il nostro mercato del lavoro mentre si avvale di un clima migliore anche in termini di fiducia e di una domanda interna meno asfittica, continua a mostrare un andamento poco equilibrato: di quei 378 mila nuovi occupati solo 92 mila sono posti di lavoro permanenti, stabili. Gli altri 286 mila sono a termine, un richiamo imperioso e poco tranquillizzante ad una precarietà lungi dall’essere debellata.

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