Fior fiore di intellettuali sono saltati sul carro di battaglia. Leggo con sbigottimento un articolo sofisticato di Massimo Recalcati (“Rimozione e pacificazione”, La Repubblica, 23.7.2013), che ricorre alla psicoanalisi per stigmatizzare i collaborazionisti del PDL. La sinistra che ha voluto il governo delle larghe intese avrebbe, ipso facto, riconosciuto a Berlusconi la qualifica di “statista” (e chi l’ha mai detto?). Ne consegue che la decisione di collaborare è “delirante”, perché nega il principio di realtà – Berlusconi, evidentemente, è un bandito politico, (al cui cospetto Craxi appare come un boy scout preso con le mani nella marmellata). È sottointeso che gli unici interpreti affidabili della realtà sono loro, i fautori della lotta a oltranza contro l’orco di Arcore. Lasciamo perdere gli esami di realtà, pane quotidiano dei riformisti! Racalcati abbaia sotto l’albero sbagliato. È cosa arcinota che gran parte dei post-comunisti (ma non quelli che si ispirano alla nobile lezione dei ‘miglioristi’ Amendola, Napolitano e Macaluso) da decenni combattono fantasmi. Così sono confluiti in un’armata Brancaleone, alla quale si sono uniti in ordine sparso opportunisti, “girotondini”, contestatori per partito preso, e demagoghi di ogni risma (i vari Di Pietro, Travaglio ecc.).
È ovvio che, di norma, in un sistema bipolare, “destra e sinistra non possono governare insieme”. E infatti questo è un governo d’emergenza, a termine – tenuto a battesimo, peraltro, da un presidente che più saggio non si può: Giorgio Napolitano. Oggi il governo delle larghe intese – formula che anche Bobbio riconobbe come necessaria, in circostanze eccezionali – è una necessità politica. Chiunque sia dotato di raziocinio sa perché: (a) il risultato delle urne non ha assegnato una chiara maggioranza a nessun partito; (2) i pentastellati hanno risposto picche alle avances di Bersani (e meno male!); (c) una gravissima crisi economica sta prostrando il Paese. Cosa c’entri la psicoanalisi con tutto questo è un mistero. Anche in Germania a suo tempo si fece un governo di larghe intese. È forse uno scandalo? Ma in Germania si può fare, in Italia no. E sapete perché? Semplice. Da noi ogni accordo bipartisan è impossibile e impensabile in quanto destra e sinistra italiane “sono profondamente diverse”. Ecco che rispunta (lapsus freudiano?) un chiodo fisso: la diversità “morale” delle avanguardie rivoluzionarie.
Recalcati dice che la pacificazione tra PD-PDL nega l’idea stessa del conflitto, “sale della democrazia”. Cado dalle nuvole! Un governo PD-PDL con data di scadenza non sopprime affatto la conflittualità che alimenta il bipolarismo. Casomai la neutralizza o la assopisce per un breve periodo. Diciamo le cose come stanno, una buona volta! Se c’è qualcosa che ha avvelenato la nostra vita politica in questi ultimi anni è stata proprio una conflittualità endemica e insopportabile. Il problema italiano è tutto qui: non ci si intende su cosa sia la conflittualità sana. E allora lo spiego io: è quella che si fonda su una visione liberal-democratica di stampo anglosassone: destra e sinistra sono competitors egualmente legittimi che possono candidarsi alla guida del Paese; l’avversario non è un nemico da eliminare, bensì un concittadino che presenta proposte politiche diverse dalle nostre (apparteniamo tutti alla stessa nazione!); i cittadini scelgono liberamente, col voto, chi li governerà – se decidono in maniera a noi sgradita, avranno le loro ragioni, che dobbiamo rispettare. Churchill, battuto dai laburisti nell’immediato dopoguerra – lui che aveva guidato una Gran Bretagna sola e spaurita contro un nazismo vincente –, non imprecò contro gli elettori che gli avevano voltato le spalle. Quando lo intervistarono, disse: ‘gli inglesi, miei compatrioti, bisogna capirli: hanno sofferto così tanto!’.
In sintesi: la lotta politica va intesa come competizione e alternanza pacifica tra forze contrapposte, ma dialoganti, che si riconoscono nelle stesse Istituzioni e nella medesima Costituzione. Se si ragiona così, allora sì che si riesce anche a governare assieme, sia pure per poco, nell’interesse del Paese. Trovo assurdo l’elogio della conflittualità sana rivolto ai riformisti che, in nome del realismo, accettano un governo di larghe intese: è la sinistra antagonista, di filiazione berlingueriana, che ha sempre alimentato una conflittualità malata e belligerante: la contestazione fine a se stessa, la violenza verbale e l’insulto, l’odio per l’avversario, l’uso politico delle inchieste giudiziarie – frutto, tutto questo, del marx-leninismo spurio e ribellistico che ha attecchito in Italia. La linea Berlinguer (il PCI ha saputo esprimere molto, molto di meglio!) ha stuzzicato gli impulsi anarcoidi e anti-politici nella società italiana. E il capolavoro è sotto gli occhi di tutti.
Per pacificazione, dunque, s’intende una cosa precisa: la fine della demonizzazione dell’avversario, in cui una certa sinistra saccente da sempre dà il peggio di sé (il Berlusconi anti-comunista degli esordi non fece altro che imitare gli stilemi di quella sinistra, rovesciandoglieli contro). Cos’è il giustizialismo, se non una pulsione aggressiva che vede nell’avversario un nemico da distruggere? Berlusconi è quel che è, ormai lo sanno anche le pietre. Ma – e questo va ripetuto ad nauseam – il nostro avversario, chiunque sia, va sconfitto con le armi della ragione, cioè politicamente, nelle urne. Non sulle pagine dei giornali, e men che mai nelle aule giudiziarie.
Edoardo Crisafulli
Trovo giuste le considerazioni di Crisafulli, ma penso che per arrivare ad una visione di stampo anglosassone della politica in Italia ci sia bisogno ancora di tempo, di un mutamento sociale e di una educazione civica che ora non c’è. Cioè più che i politici dovranno essere gli italiani a cambiare modo di pensare.