Elezioni, ora Renzi rifletta


matteo-renzi-funerali-ingrao-imago-di ANTONIO MAGLIE-

Matteo Renzi ha ragione: queste elezioni amministrative (parziali poiché solo un quarto del corpo elettorale è andato alle urne) non sono un test per il suo governo. Pertanto il fatto che abbiano prodotto risultati deludenti non lo obbliga ad abbandonare la poltrona di palazzo Chigi: non erano un test su di lui e sarebbe stato meglio se il premier non avesse trasformato il prossimo referendum costituzionale in un plebiscito su di lui con una torsione dell’attuale Carta impropria e largamente inaccettabile. Ma se non sono un test per il governo, lo sono, però, per le scelte compiute da Renzi in questi anni di navigazione sostanzialmente solitaria. Recentemente ha riconosciuto di essere arrogante: forse è venuto il momento di fare un ulteriore salto di qualità nell’autocritica scoprendo il piacere di una virtù che sembra fargli difetto, l’umiltà.
I dati, d’altro canto, sono sconfortanti ancorché giustificati con alibi in una certa misura anche fondati. E’ vero Roberto Giachetti a Roma ha pagato i disastri di Ignazio Marino ma il candidato, voluto e imposto attraverso la foglia di fico delle primarie, non scaldava i cuori: sarebbe stato sufficiente un giro per le città, semmai solitario cioè senza l’accompagnamento dei “soffiettisti a contratto e in servizio permanente effettivo”, per rendersene conto. Non solo non scaldava i cuori ma non era percepito come una reale rottura non solo rispetto al fallimentare Marino ma anche rispetto ad altre amministrazioni di centro-sinistra che hanno aperto la strada prima ad Alemanno e poi al sindaco della Panda Rossa.
E discutibile è stata la scelta (e i modi in cui è avvenuta) di Valeria Valente che è stata spazzata via non solo dal sindaco uscente di Napoli, Luigi De Magistris, ma anche dal candidato del Centro-destra, Gianni Lettieri, già sconfitto nella precedente tornata elettorale. Candidato di stretta osservanza renziana, la Valente non è stata in grado di scalfire il robusto bacino di consensi che si aggrega intorno a De Magistris né a guadagnare voti al centro. Ma se i risultati di Roma e di Napoli erano in qualche misura previsti, il vero “fallimento” il Pd lo incassa a Milano, nonostante porti Giuseppe Sala al ballottaggio. Solo apparentemente un paradosso. Sul manager Renzi aveva investito. In qualche misura era il “simbolo” del “nuovo Pd” pragmatico, aperto al mondo degli affari, così immerso nella retorica del “fare” da apparire berlusconiano. Con il vento dell’Expo ancora in poppa, Sala veniva dato per vincitore al primo turno. E’ bastato che dall’altra parte gli schierassero (unitariamente) contro un candidato credibile per “afflosciare” di colpo il “miracolo arancione” costruito alle precedenti elezioni da Giuliano Pisapia.
Al di là dei risultati, il Pd è chiamato a riflettere sulla sua identità. La “cura renziana” si basava su un partito leggero (ed è così tanto leggero che ha cancellato il suo simbolo un po’ dappertutto), devoto al “Capo”; su una predicazione anti-politica “light” perché tutta interna al sistema (“io ne faccio parte per scacciare i mercanti dal tempio”); su una metamorfosi centrista di un esperimento politico che ha addirittura accarezzato l’ambizione di presentarsi come la soluzione capace di rianimare la vecchia socialdemocrazia europea in affanno in Germania, Spagna, Gran Bretagna, Irlanda, per non parlare della Francia e bizzarramente in Italia mancante degli unici elementi fondanti di quella costruzione politica cioè i socialisti condannati al rogo eterno da una sorta di “damnatio memoriae”.
Risultati. Il partito leggero non ha più radicamento e l’ormai avvenuta cronicizzazione dell’astensione al quasi 40 per cento è figlia anche di questo debole riferimento non solo territoriale ma anche (e soprattutto) culturale. La metamorfosi centrista non è stata coronata da successo perché non ha fatto i conti con l’agilità di altri (il Movimento 5 stelle) ad occupare, anche con scelte strumentali (candidati che guardano molto di più a destra come Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino) il vuoto lasciato dal declino berlusconiano. Forse non è un caso che l’unico sindaco eletto al primo turno sia stato Massimo Zedda, a Cagliari: lì non è passato il ripudio delle vecchie alleanze.
La “rottamazione” è stato lo strumento tecnico con il quale Renzi prima ha conquistato il partito e poi ne ha modificato i caratteri con un intervento di chirurgia estetica che ora mostra più di qualche limite. E il difetto più grande riguarda la sua filosofia generale, cioè la “rottamazione”. Doveva coinvolgere la classe politica; al contrario ha stravolto l’essenza stessa di un partito progressista, il suo bagaglio ideale, il suo patrimonio valoriale, i suoi riferimenti categoriali. La proposta del Pd ha adottato con maggiore disinvoltura toni e parole degli uomini della City piuttosto che i messaggi di Papa Francesco; ha accettato le dinamiche del liberismo, venendo scavalcato “a sinistra” persino dalle elaborazioni attuali del Fondo Monetario Internazionale, non riuscendo a comprendere che così come il Muro di Berlino è stato il capolinea del socialismo realizzato e dittatoriale incarnato dal blocco sovietico, la crisi economica può essere il punto di arrivo dell’ideologia unica che a partire da Reagan e Tatcher si è affermata nel mondo dando al capitalismo i caratteri di un sistema nella forma democratico e nella sostanza spregiudicatamente autoritario nel momento in cui non assicura a tutti le medesime opportunità, blocca l’ascensore sociale, crea le condizioni di una ridistribuzione malata del reddito in virtù della quale i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Perdendo i riferimenti ideali, valoriali e (per una volta usiamo “vecchi” sostantivi) di classe, Renzi ha combattuto la sua battaglia politica con le stesse armi “leggerissime” del Movimento 5 stelle. Perdendola. Perché se Grillo e compagni possono brandire come progetto politico “compiuto” l’onestà a fronte delle numerose malversazioni di cui i cittadini sono testimoni, la “rottamazione” del Premier ha finito per apparire sempre di più come un messaggio gattopardesco: cambiare tutto per non cambiare nulla. Ci voleva, al contrario, una offerta politica forte che rimettesse le cose al giusto posto, che ponesse l’onestà come pre-condizione essenziale e ineludibile per accedere alla politica e un profondo mutamento del sistema economico-sociale (partendo dagli Enti Locali) come programma di riferimento, capace di realizzare esattamente quello che predica Francesco: rimettere l’uomo al centro dell’universo, con i suoi sogni e i suoi bisogni; frenare la corsa all’egoistico accaparramento per fare in modo che anche chi è rimasto indietro possa guadagnare qualche posizione e sistemarsi un po’ più avanti; ricostruire le condizioni di una eguaglianza che lungi dall’essere formale appiattimento torni, però, a garantire a tutti una vita degna di essere vissuta, senza esclusi a priori.

antoniomaglie

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