Uno degli aspetti della schizofrenia dominante nel dibattito pubblico italiano emerge quando si parla di lavoro. Da un lato, sui grandi giornali e dai politici viene deprecata la dilagante precarizzazione, dall’altro, si fanno leggi che la incrementano. Anche il governo Letta sta discutendo di un ulteriore estensione del ricorso ai contratti a termine, con l’argomento (che a me sembra risibile) dell’Expo del 2015. Eppure la Spagna, che ha già seguito l’anno scorso questa strada, ha visto la disoccupazione giovanile continuare a crescere. La ragione è chiara: l’impresa assume se vuole investire e se non lo fa dipende dalla recessione, non dalla tipologia contrattuale, la verità e che si persiste nell’idea che l’Italia ha un problema di competitività derivante dalla rigidità del mercato del lavoro e da salari troppo alti. Chiunque conosca la realtà del mondo del lavoro sa che la rigidità non c’è più da un pezzo, e che i salari sono oramai a livello di sussistenza. Le industrie continuano a delocalizzare, perchè altrove (nell’Europa dell’Est o in Asia) i salari sono ancora più bassi, e i sindacati spesso non esistono nemmeno. Ma è pensabile che, anche se lo si ritiene giusto, l’Italia possa competere al ribasso su salari e diritti con la Serbia o con il Bangladesh?
La competitività di una nazione come la nostra non può crescere che puntando sulla qualità. Ciò significa anzitutto un mondo del lavoro qualificato sul piano del sapere e della preparazione a tutti i livelli (da quello tecnico all’istruzione superiore alla specializzazione).
Ma per far questo bisognerebbe seguire strade molto diverse da quelle percorse dai governi che si sono succeduti. Nei giorni scorsi è stato reso noto il Rapporto OCSE 2013 sullo stato dell’istruzione nei paesi più sviluppati. Non se ne è parlato molto, ma contiene dati sconfortanti per il nostro Paese. L’Italia è la nazione europea che spende meno in istruzione (il 61% rispetto alla media OCSE, il 69% rispetto all’Europa dei 21) ed è quello che ha tagliato di più in questo settore, subito dopo l’Ungheria. Inoltre, con il 21% di laureati sulla popolazione tra i 25 e i 34 anni l’Italia è al decimo posto della media OCSE (39%); in Europa solo la Turchia sta peggio.
Eppure la laurea consente, come è dimostrato, maggiori possibilità di carriera lavorativa (a proposito della lotta alla disoccupazione giovanile).
Sempre più giovani e famiglie non possono però permettersela, sia per il calo dei redditi familiari, sia per l’incremento delle tasse universitarie e la riduzione delle borse di studio.
Avremo mai una classe dirigente, politica e non solo, che affronterà questi problemi?
Sono perfettamente d’accordo con quanto ai scritto. Sostengo, in tutte le occasioni, e aggiungo, che il nodo del declino del nostro paese si focalizza sui vuoti strutturali: è possibile deterninare le sinergie di sistema produttivo, su 8300 strumenti urbanistici? Si sono criminalizzati i partiti e si è tutto personalizzato e lo sguardo della politica non esce dalla cucina.