-di SANDRO ROAZZI-
L’occupazione in Italia oscilla fra il più ed il meno (come a maggio, secondo l’Istat) ma le questioni di fondo restano le stesse. Tre per l’esattezza. La prima è, come ci si poteva sbagliare, costituita dalla disoccupazione giovanile che risale a maggio al 37%, con un non irrilevante +1,8%. La seconda è che l’aumento della occupazione è merito dei lavoratori ultracinquantenni, intrappolati dalla legge Fornero e dalla mancanza di vera flessibilità, che si vedono allungare a vista d’occhio il traguardo della pensione. Ed è la conseguenza di scelte compiute proprio da coloro che poi si stracciano le vesti condannando il presunto scontro generazionale. Infine c’è la classe di lavoratori di punta, quella che va dai 35 ai 49 anni, che inanellano performance desolatamente deludenti. Come corollario un’altra notizia che suona come l’ennesimo segnale d’allarme e che fatalmente sarà ignorato: rispetto a maggio 2016 i lavoratori indipendenti sono calati di ben 172 mila unità. Quello che era un bacino occupazionale che funzionava anche da… ammortizzatore in tempi di crisi offrendo opportunità di lavoro, oggi dimostra di non riuscire più a tenere neppure le proprie posizioni. E su questo punto il piatto delle proposte politiche piange di brutto.
A maggio l’Istat registra complessivamente 141 mila occupati in più. Se si vuole però vederci più chiaro si scopre che la crescita del lavoro dipendente, 313 mila unità si scompone in 114 mila posti di lavoro permanenti e 199 mila a termine. Insomma torna a crescere la precarietà. Inoltre gli occupati ultracinquantenni sono molti di più degli altri, ben 407 mila, un gigantesco tappo sociale che potrebbe esplodere da un momento all’altro. In termini di classe d’età infatti si scopre che il tasso tendenziale del segmento più giovane, 15-24 anni, scende del 5,8%, quello successivo fino ai 34 anni dello 0,8% e quello che lambisce i 50 anni cede dell’1,8%. Solo gli ultracinquantenni conservano il segno positivo: +5,3%. Il tasso di occupazione resta pertanto inchiodato al 57,7%, uno dei più bassi rispetto ai Paesi nostri competitori.
Di fronte a questi dati impallidiscono sia le autocongratulazioni ben note, sia le vuote invocazioni a fare del lavoro il tema centrale della politica. Non ci voleva molto a comprendere che con la fine degli incentivi, le ristrutturazioni e le crisi industriali in corso, l’assenza di politiche del lavoro attive, un mercato del lavoro ingessato, si rischiava di scivolare in una situazione di stallo parzialmente lenita dalla lenta ripresa che per fortuna sta reggendo.
Da questo punto di vista non funzione neppure la frase di moda che richiama la necessità della politica del fare. Prima servono progetti, strategie di sviluppo, uno sforzo imponente in termini di investimenti.
E sarebbe utile impegnare le parti sociali a concorrere a scelte in grado di consolidare la crescita. Ma ancora una volta la politica sembra balbetta