Francia, vince l’astensione: nelle piazze la resa dei conti

 

-di ANTONIO MAGLIE-

Comunico al nuovo potere francese che non un metro di terreno sul fronte dei diritti sociali gli verrà ceduto senza la lotta”. Jean Luc Mélenchon apre le porte dell’Assemblea Nazionale spiegando al neo-presidente, Emmanuel Macron, che se la sua vittoria ha scatenato l’euforia nelle cancellerie europee (tedesca in particolare), a Parigi le cose andranno diversamente. Il leader di France Insoumise è uno dei vincitori delle elezioni francesi avendo conquistato ventisette seggi (diciassette col suo partito e dieci con le insegne del partito comunista). Poi ci sono altri due sicuri vincitori. Il governo. Il partito di Macron, prodotto di laboratorio realizzato con il concorso fattivo e molto concreto di un nutrito gruppo di banchieri, cioè La République en Marche ha ottenuto da solo la maggioranza: 308 parlamentari ai quali vanno aggiunti quelli dell’alleato, il centrista Francois Bayrou: quarantadue. Macron, insomma, è autosufficiente, non sarà obbligato a concedere troppo ai “compagni di viaggio”. Maggioranza ampia ma meno delle previsioni della vigilia che parlavano di quattrocento e passa seggi.

L’altro vincitore si chiama “astensione”. Ha raggiunto la cifra-record al secondo turno del 57,4 per cento, quasi tredici punti in più rispetto al 2012 (44,6), oltre diciassette rispetto al 2007 (40). Mélenchon ha giustamente sostenuto che i “francesi sono scesi in sciopero civico”. Un segnale chiaro, da molti temuto: Macron e la sua nuova politica hanno vinto ma non hanno convinto. In lui si è identificata la Francia che si accontentava di un mutamento di facciata, di sostituire un ceto politico vecchio e sclerotizzato (su 577 parlamentari, i neo-eletti sono addirittura 432; l’Assemblea è la più femminile della storia: ospiterà ben 223 donne) con uno nuovo, brillante, come si usa dire oggi “smart”. Ma la maggioranza degli elettori non è convinta che qualcosa sia cambiato o potrà cambiare. Come sottolineavano tutti i sondaggi, lo stato d’animo che prevale è quello dell’attesa. Hanno capito che la risposta non possono darla i populisti di destra, Marine Le Pen (ha conquistato otto poltrone ma non potrà costituire il gruppo parlamentare), abilissimi a far lievitare le rabbie ma totalmente incapaci (non solo in Francia, anche in Italia: discorso che vale sia per quelli apertamente di destra che per quelli che si camuffano) di offrire una proposta politica credibile, volendo anche al passo con la modernità che non significa essere al passo con gli algoritmi della Finanza (questo è un convincimento che coltiva Macron e anche Manuel Valls, l’unico sopravvissuto del vecchio mondo hollandiano, grazie a una maggioranza striminzita di 139 voti conquistata nell’urna).

È questo terzo vincitore, allo stesso tempo anonimo e collettivo che fa dire a Michel Wieviorka, direttore dell’école des hautes etudes en sciencies sociales: “Non è con questo Parlamento che l’Eliseo dovrà fare i conti ma con la società civile”. E saranno conti complicati perché Macron annuncia di voler peggiorare la già pessima legge che va sotto il nome di Loi Travail e che nei mesi scorsi ha prodotto l’effetto di infiammare le piazze.

Sarà una partita complicata, soprattutto per i socialisti che escono da queste elezioni a pezzi, vittime di una politica caratterizzata negli ultimi tempi da profonde e violente sterzate a destra e di un presidente della Repubblica che non è parso mai all’altezza del ruolo e non solo per una questione di dimensioni fisiche. Sono riusciti a non scomparire conquistando 33 seggi (altri dodici sono andati ai socialisti raggruppati sotto le insegne di europe ecologie les verts): riusciranno a formare il gruppo parlamentare ma da domenica sera sono anche alla ricerca di un segretario nuovo visto che Jean-Christophe Cambadelis (anche lui vittima della glaciazione) si è dimesso. Il fatto è che a questo punto appaiono schiacciati: da un lato dal richiamo tecnocratico che spinge tra le braccia di Macron pronto, abbracciandoli, a stampar loro sulla fronte il bacio della morte; dall’altro dal ritorno a una versione più sociale e di lotta che al candidato Benoit Hamon non ha portato bene e che, comunque, finirebbe per portare acqua solo al mulino di Mélenchon e certo non a quello già piuttosto inaridito di Rue Solferino.

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