Quel van contro i musulmani Londra e lo “scontro di civiltà”

Un van lanciato sulla folla in uscita dalla moschea di Finsbury Park a Londra, dopo la preghiere nel mese sacro del Ramadam. Al volante un “bianco”, un occidentale. Lascia sul terreno un morto e otto feriti. La gente, presa dalla rabbia, cerca di linciarlo. L’attentatore viene salvato dagli agenti ai quali offre una notevole collaborazione anche l’Imam della moschea. Nella città guidata da un sindaco musulmano di origini pakistane, Sadiq Khan, multiculturale per definizione, sembra prendere forma il peggiore dei nostri incubi attraverso la mente scellerata di un attentatore che non è diverso dagli altri, di altra estrazione, che hanno seminato la morte in questi mesi a Manchester o a Berlino. Lo scontro di civiltà irresponsabilmente evocato da molte forze politiche che coltivano l’emotività per lucrare profitti elettorali (anche in Italia) assume i contorni di quel van di Finsbury Park. In questi casi, è possibile solo una risposta: la riflessione. In questi giorni è uscito un libro molto bello di Donatella Di Cesare: “Modernità e Terrore” (Einaudi). Il passo che proponiamo (nella speranza di stimolare la lettura del libro intero) ci è parso utile per provare a parlare di quel che è accaduto a Londra uscendo dell’emotività del fatto per provare a sollecitare la ragione.

-di DONATELLA DI CESARE*-

Sono tre i paradigmi che prevalgono nell’interpretazione del terrorismo attuale: Lo “scontro di civiltà”, secondo la fortunata formula di Huntington, la lotta di classe e, più inbgenerale, l’idea che siano le forti disuguaglianze economiche ad alimentare la violenza, infine la guerra del “sacro” che chiama in causa la religione. Tutti e tre questi paradigmi, pur contenendo giuste intuizioni, spunti fecondi, si rivelano inadeguati e offrono una visione semplificata, talvolta pericolosamente riduttiva, di un fenomeno molto complesso.

Il terrorismo è strettamente connesso con la globalizzazione, di cui non è solo l’effetto, ma anche, in certo modo, il vettore trainante. Se da un lato proclama il suo “no” al pianeta unificato, dall’altro, però, fa saltare i confini, cancella i limiti, annulla le differenze: tra guerra e pace, militari e civili, emergenza e normalità. Il terrorista è un agente dell’ibridazione. La macabra scena dell’autoesplosione è fortemente simbolica: deflagrando il “martire” frammenta le membra proprie e altrui, provoca un miscuglio di sangue e corpi, sino a impedire l’dentificazione. Confonde, dissimula, mimetizza l’identità.

Questo spiega perché sia difficile definire una volta per tutte il “terrorista”, a meno di non ripiegare su una delle numerose scorciatoie che ne fanno un mostro sanguinario o uno psicopatico. Altrimenti si possono fornire diverse interpretazioni, sempre parziali e sommarie: i terroristi sono vittime della crisi economica, prove viventi del naufragio dell’integrazione, novelli erostrati in cerca di celebrità, figli di internet e dei videogiochi, prodotti della società dello spettacolo. E l’elenco potrebbe proseguire.

Nel delineare lo “scontro di civiltà”, Huntington ha avuto forse il solo merito, come ha notato Appadurai, di aver colto per tempo quel sentimento di inimicizia verso l’Occidente che si andava diffondendo nel mondo islamico. Ma è inaccettabile anzitutto la sua idea monolitica e fissa di “civiltà”, da cui viene espunta la storia. Come se l’Occidente – per limitarsi alla filosofia – non fosse debitore all’islam dei testi aristotelici, e come se la mistica islamica fosse immaginabile senza Platone. Nel mondo globalizzato l’immagine di due blocchi monolitici, circoscritti per di più con criteri di razza, di territorio, di religione, appare non solo errata ma anche nociva. L’effetto immediato, quello più noto, è condannare tutto il variegato mondo musulmano, tacciandolo di essere arcaico e antiprogressista.

Più che di “scontro di civiltà” si dovrebbe parlare di una civiltà degli scontri che attraversa il pianeta e produce i focolai di una guerra a bassa intensità. A ciò ha contribuito in modo determinante il potere sfrenato del capitalismo globale che, favorendo uno sparuto gruppo di vincitori, dietro di sé ha lasciato e lascia i confini masse di perdenti, non solo esclusi da ogni possibilità di emancipazione, ma anche profondamente umiliati. Tuttavia disagio e povertà, disoccupazione non sono cause dirette, molle che spingono immediatamente a quella scelta estrema e che potrebbero chiarirla. Né la giustizia sociale, un tempo bandiera di organizzazioni combattenti, viene oggi esplicitamente rivendicata.

I poveri sono le prime vittime del terrore. A gettare l’ombra di altri interessi non è solo il ruolo ambiguo di paesi come l’Arabia Saudita o il Kuwait. La questione è ben più complicata, se si considera l’inquietante convergenza tra capitale finanziario e terrorismo transnazionale che, favoriti dalla comune struttura reticolare, sfiorano la complicità. Basti pensare all’enorme traffico d’armi.

Non meno riduttivo è il terzo paradigma che interpreta il terrorismo come sinonimo del fondamentalismo, una peripezia semantica ingiustificata, che provoca ulteriori gravi slittamenti. Si può essere fondamentalisti, radicali e radicalizzati, senza per ciò essere “terroristi”. Di qui a incolpare l’islam il passo è breve. L’islamofobia diventa a portata di mano. Se però si prende di mira l’islam, perché risparmiare cristianesimo ed ebraismo?. Ecco che il fronte si amplia. Viene rispolverato lo scontro di civiltà che, in un a nuova versione, si presenta come il conflitto tra laicità, illuminata e progressista, contro il “sacro” cioè la religione che, riaffiorata nello spazio pubblico, sarebbe pronta, in tutte le sue tradizioni, a un nuovo sterminismo teocratico. La “religione è guerra” – recita un primordiale stereotipo mai venuto meno. Di monoteismo in monoteismo, di testo in teso, si risale fino all’Antico Testamento, dove si immagina di rinvenire le prove di quella “teologia del terrore”, causa di tutti i mali, passati, presenti e futuri.

Questo paradigma, suffragato anche dal clash of monotheisms, dall’attrito fra i tre monoteismi, sembra ormai il più diffuso. Se non si può negare che la violenza jihadista abbia una matrice religiosa, d’altra parte è inaccettabile sia l’amalgama tra islam e terrore, sia la criminalizzazione dei monoteismi. Si tratta ancora una volta di un tentativo, drastico e schematico, per orientarsi nel tormentato scenario contemporaneo cercando un fronte netto, una frontiera certa, là dove invece le linee dei conflitti si intersecano, si legano, si saldano.

* Donatella Di Cesare insegna filosofia teoretica all’università la Sapienza di Roma. Il testo che abbiamo pubblicato è tratto dal libro: “Terrore e modernità”, Einaudi, 2017, pp 2007; capitolo: “Sull’insonnia poliziesca”, pp. 158-161; euro 12,00

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