Almirante boia o leader con senso dello Stato?

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-EDOARDO CRISAFULLI-

 
Uno dei ricordi più vividi della mia infanzia riminese risale al 1972 o al 1973, ero in terza o quarta elementare. La finestra di casa mia s’affacciava su Piazza Tre Martiri (già Giulio Cesare), luogo ideale per gli scontri tra compagni e camerati: proprio lì tre partigiani furono impiccati dai nazi-fascisti nel 1944. La sezione del MSI si trovava in una viuzza lì vicino. Un affronto alla memoria.Una sera parte una manifestazione. Ricordo gli schiamazzi, l’odore acre dei lacrimogeni; mia madre che cammina a carponi verso le finestre, abbassa velocemente le tapparelle, ci intima di rifugiarci in cucina; io che sbircio e vedo laggiù una fiumana di ragazzi vocianti e, in un angolo della piazza, un cordone di poliziotti in assetto da guerra (o così pareva a me) a far da schermo a un gruppetto di giovani con giubbotti neri che tendono il braccio. Un solo grido, scandito ossessivamente: “Almirante-boia!” Gli occhi mi lacrimano per via della cortina fumogena, e non capisco niente di quello che succede.

Appena otto anni più tardi, tessera della FGCI in tasca, avrei capito. Da quel momento in poi avrei guardato i missini (noi ‘figiciotti’ li chiamavamo fascistelli), come si osservano le bestie strane, un po’ pericolose, ma forse non più di tanto. I picchiatori non c’erano più. La mia è una generazione di mezzo: ero troppo giovane per scendere in piazza nel ‘68 o nel ‘77, sono troppo maturo per avere il distacco di un quarantenne. Ho fatto politica negli anni del ‘riflusso’, cioè del disimpegno. Ma l’ideologia era una nuvola scura che non spariva mai dal nostro cielo: Romagna, terra rossa, di gloriose lotte partigiane. L’epiteto più ingiurioso era ‘fascista’. Il professore un po’ carogna (forse solo troppo severo) era un fascista; il militare di carriera che sfoggiava la divisa e le medaglie era un fascista. Anche mio padre, che dirigeva l’Aeroporto di Rimini, se faceva troppo… il capo!, era un fascista (il fatto che fosse un social-democratico non deponeva a suo favore). Quella è l’aria contaminata, da ‘guerra civile fredda’, che abbiamo respirato. Ci ha educati all’antifascismo e alla democrazia; e, al tempo stesso, ci ha predisposti alla faziosità e all’odio ideologico. Molti compagni pensavano che Togliatti, nell’immediato dopoguerra, fosse stato troppo mite: l’amnistia era un grave errore. I missini nostri coetanei erano un conto; ma i fascisti adulti, che la camicia nera l’avevano indossata, avrebbero meritato il carcere o l’impiccagione. Eravamo manichei: da un parte i partigiani, eroi senza macchia; dall’altra i fascisti, belve assetate di sangue.

Negli anni, ho imparato a stemperare i giudizi politici. Ma ci ho messo molto a guarire dal manicheismo, una sorta di residuo limaccioso come quello che si raccoglie in fondo alle bottiglie di vino. Anche in quelle buone. Il leader del partito cui avevo aderito nel frattempo, Bettino Craxi, riceveva il segretario del MSI, Giorgio Almirante, nelle consultazioni per la formazione del primo governo a guida socialista. Era la prima volta che una ‘forza dell’arco costituzionale’, come si diceva allora, osava tanto. Lo fece, ci ricorda Del Bue (Il socialismo liberale da Rosselli a Craxi), perché la discriminazione non aveva più senso. Io storcevo il naso: mi pareva uno strappo pericoloso. Il mio antifascismo era rimasto intransigente, nonostante la conversione al riformismo socialista. Cominciavo a capire che i comunisti sulla Resistenza ci avevano lucrato. Né sopportavo più l’intimidazione nei confronti dei liberi pensatori. I fascisti immaginari dei nostri tempi erano l’equivalente degli eretici durante la Controriforma: nel migliore dei casi, ribelli da ricondurre all’ovile; nel peggiore, nemici della democrazia da ostracizzare. Vedevo questi eccessi, ma avevo ancora una mentalità da Fronte popolare: stalinista, nonostante tutto, non era un sinonimo di fascista. Non era stata la gloriosa armata rossa a uccidere il drago nazista? Il comunismo era una brutta dittatura solo perché Marx, il più grande filosofo dell’età moderna, era stato frainteso; il nazismo invece era il male assoluto, logica conseguenza del Mein Kampf, libro ignobile e farneticante. Il fascismo era più o meno la stessa cosa.

Almirante, per me, rimaneva un personaggio quasi diabolico, ributtante. Un antisemita, un amico dei nazisti. Un torturatore di partigiani. Un boia, appunto. Non ho mai pensato che qualcuno potesse indossare la camicia nera per amor di patria. Finché non sono arrivati i libri di Pansa: I figli dell’Aquila (2002); Il sangue dei vinti (2005). All’inizio ho avuto il rigetto. Poi ho aperto gli occhi. Pochi anni dopo, nel 2009, esce un saggio straordinario: Hitler e Lenin di Luciano Pellicani. Ci avevo messo gli anni ad abituarmi all’idea che Stalin fosse un criminale; ora venivano alla luce le analogie tra Lenin, il rivoluzionario per eccellenza, e Hitler, l’incarnazione del male: entrambi cultori della violenza più truce, intesa come agente di purificazione di un mondo borghese putrefatto. Nello stesso anno esce I redenti di Mirella Serri, un’altra lettura illuminante. Apprendo che il fior fiore dell’intellighenzia italiana era collusa con il fascismo. Letterati, filosofi, storici di gran valore scrivevano tutti sul Primato di Bottai, e da questi ricevevano favori o coperture; anche il mitico Galvano Della Volpe era un ‘convertito’ all’antifascismo. Gettata la camicia nera, tutti questi intellettuali si erano redenti diventando fiancheggiatori del PCI. I promotori della nuova ortodossia antifascista, i più intransigenti guardiani della Costituzione repubblicana durante la guerra civile erano stati fascisti all’acqua di rose o, al massimo, tiepidi frondisti (la dissimulazione onesta…). I più giovani avevano la stessa età di chi aveva imbracciato il fucile per combattere l’invasore tedesco: vent’anni o poco più. Nulla di male se queste magagne fossero venute fuori subito. Ma gli intellettuali che salivano in cattedra a impartire lezioni, quelli che davano la patente di democraticità agli altri, evitavano ogni dibattito come la peste: il mito resistenziale non tollerava zone grigie, di ambiguità.

Solo oggi, a cinquant’anni suonati, ho l’animo giusto per recepire il messaggio conciliante del nostro Presidente in occasione del centenario della nascita di Almirante. Le parole di Napolitano sono misurate. E, soprattutto, sagge: l’ex leader missino rispettava i propri avversari, dimostrando così un “superiore senso dello Stato, che ancora oggi rappresenta un esempio.” Viviamo in anni post-ideologici – questo è il paradosso – ma siamo ancora sotto l’effetto narcotico dell’ideologia: sulla rete e su facebook è partito l’immancabile fuoco di sbarramento: il Presidente della Repubblica (un ex comunista!) osa ‘riabilitare’ un fascista conclamato? Un’occasione ghiotta per i militanti del partito dell’indignazione permanente.

Giornalisti saputelli ci impartiscono lezioni di storia. Non ne abbiamo bisogno. Sappiamo tutti chi è Almirante, e da dove viene. Sappiamo che fu tra i firmatari dell’infame “Manifesto della razza” nel 1938; sappiamo che aderì con entusiasmo alla Repubblica Sociale; sappiamo che fu un ufficale nelle brigate nere e combatté i partigiani – a viso aperto, oserei dire; sappiamo che nel dopoguerra fu un apologeta del fascismo. Non è questo il punto. Napolitano non si è arrogato il diritto di cancellare le colpe di Almirante. Questo non gli compete; le condanne e le assoluzioni spettano, semmai, alla storiografia giudiziaria e alle giurie popolari istituite dagli indignados del Fatto Quotidiano. Il Capo dello Stato invita gli italiani a uno sforzo di riconciliazione nazionale. Questo il senso profondo del suo messaggio. Certo, affinché ci sia la riconciliazione, bisogna che tutti si riconoscano in un minimo comun denominatore politico: la democrazia liberale e la Costituzione repubblicana. Ma qualcuno può ancora affermare, in buona fede, che la destra parlamentare italiana non crede né nell’una, né nell’altra?

Ma Almirante – protestano i Sacerdoti del Tempio Democratico – era un ‘eversore’ anche negli anni ’60 e ’70: durante la Contestazione strizzava l’occhio ai picchiatori fascisti. Che dire, allora, della violenza eversiva degli extra-parlamentari rossi, che ricevevano tanto di pacche sulle spalle dai ‘cattivi maestri’? Non dimenticherò mai il brutale omicidio Ramelli: un giovane massacrato a sprangate da bravi ragazzi di sinistra, in nome dell’antifascismo. La sua colpa imperdonabile? Era un camerata. In quel tempo, intellettuali corteggiatissimi come Antonio Negri tuonavano contro la democrazia borghese dalle loro cattedre universitarie o dai loro giornali. Ebbene questi signori sarebbero eroi nazionali, figure moralmente superiori ad Almirante?

L’estremismo violento degli extra-parlamentari – neri e rossi, in questo, si equivalgono – era insensato in una democrazia liberale, e infatti sfociò negli anni di piombo. Nella guerra civile fredda sono stati commessi crimini da una parte e dall’altra. E fu così anche in quella calda, meglio nota come Resistenza. Oggi, grazie al coraggio e all’onestà di Pansa, si può dire apertamente che partigiani e repubblichini si combatterono senza esclusione di colpi. E si può anche dire che, accanto ai criminali e agli invasati, che pullulavano in entrambi gli schieramenti, vi furono persone ragionevoli e umane: le prime vittime degli opposti fanatismi. Dire queste verità non significa equiparare sul piano politico chi combatteva per la libertà e chi sventolava le bandiere con la croce uncinata e il fascio littorio.

Oggi non riesco più a condannare quei giovani che indossarono la camicia nera per un senso, per quanto malinteso, di onore o per fedeltà a un giuramento. Giorgio Almirante è legato a un periodo eccezionale e, speriamo, irripetibile. Rispettare un antico avversario; concedergli l’onore delle armi a cent’anni dalla nascita, non vuol dire rinunciare alla critica, men che mai significa annullare le distinzioni politiche. Il messaggio del nostro Presidente non è solo espressione di pietas. È sintomo di straordinaria intelligenza politica. La nostra guerra civile è durata troppo a lungo. Pacificare la nazione toglierà le armi della scomunica ideologica agli antifascisti radical-chic. E unirà finalmente un Paese fin troppo diviso e frastagliato. Nelson Mandela riuscì a perdonare i suoi aguzzini, per il bene del Sudafrica, e noi non possiamo tollerare un giudizio equilibrato su Almirante, settant’anni dopo la fine del fascismo e oltre vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino?

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