Quale futuro per il capitalismo?

A fronte dell’incalzare della crisi economica, nell’arena politica si discute sempre piu’ della necessita’ di introdurre misure drastiche che stimolino la crescita e lo sviluppo del nostro Paese. Si afferma che il capitalismo europeo occidentale sia troppo imbrigliato da lacci e lacciuoli derivanti dalle barriere all’ingresso che riguardano sia imprese che ordini professionali. Inoltre si ritiene che il capitalismo nostrano non possa dispiegare I propri effetti anche perche’ appesantito da un sistema di welfare divenuto ormai insostenibile. Il modello capitalistico a cui il Governo sembra guardare quando chiede di introdurre i licenziamenti facili e’ il modello anglosassone, in cui e’ massima la liberta’ di impresa ma minima la tutela dei lavoratori. Ma e’ il capitalismo anglosassone l’unico modello capitalistico oggi esistente? L’interessante saggio scritto da Valerio Castronovo dal titolo “Il capitalismo ibrido” ci aiuta a dare una risposta a tale quesito. Come spiega l’autore, oggi ci troviamo in presenza di una sorta di capitalismo al plurale, con un’impronta marcatamente finanziaria e transnazionale, e dai connotati ibridi ed eterogenei. Non sono piu’ gli Stati Uniti e l’Europa, insieme al Giappone, a segnare la marcia del mercato globale. Se negli anni Cinquanta, USA insieme a Canada ed Europa pesavano per quasi il 70 percento del PIL globale, ai giorni nostri essi ne detengono solo il 40-45 percento. Il mondo occidentale, con il Giappone, rappresenta oggi solo poco piu’ della meta’ della economia mondiale. In particolare, gli States hanno subito un duro colpo da quella crisi economica che hanno contribuito ad originare: nel 2003, il Congresso statunitense, in linea con il programma di Bush figlio, varo’ una legge che, al fine di agevolare gli acquisti di abitazioni, consentiva alle banche di accordare i relativi mutui senza dover verificare la disponibilita’ di un qualsiasi re ddito da parte di chi li sottoscriveva. Tuttavi a, pur avendo assestato un duro colpo all’economia statunitense, la crisi non ne ha annientato i fondamentali, perche’ gli USA possono contare su un vasto patrimonio tecnologico ed un’alta produttivita’ di base e sono tuttora al primo posto per gli investimenti complessivi nella ricerca e nello sviluppo, tanto da figurare all’avanguardia nelle tecnologie del futuro, quali biotecnologie e nanotecnologie. Al declino della potenza americana si contrappone in primis l’ascesa della Cina, che peraltro detiene una buona parte del debito pubblico statunitense. La Cina resta un enigma, essendo un sistema che continua a definirsi comunista ma che in realta’ ha abbracciato un sistema capitalistico ortodosso, la cui forza sta nella forte cointeressenza fra le élites politiche ed industriali al potere. Una crescita tumultuosa quella cinese, che potrebbe trovare presto un limite nelle riforme in tema di assistenza, previdenza e sanita’ che non sono piu’ rinviabili, cosi’ come nella necessita’ di porre un freno al crescente squilibrio tra la ricchezza delle citta’ e la poverta’ ed arretratezza delle campagne. Oltre alla Cina, e’ l’India a spostare sempre piu’ il baricento dell’economia mondiale verso l’Asia. Con un miliardo di cittadini, l’India rappresenta la prima democrazia al mondo in cui si mescolano una ventina di lingue diverse e cinque fedi religiose. Un Paese il cui PIL cresce al tasso medio fra l’8 ed il 9 percento annuo e che deve la sua crescita innanzitutto alla buona formazione della sua middle class. Unitamente alla conoscenza dell’inglese, eredita’ del periodo coloniale, la preparazione dei quadri indiani ha consentito al Paese di acquisire sempre piu’ lavoro dall’Occidente, un fenomeno che e’ iniziato qualche anno fa con la famosa delocalizzazione in India dei back-office delle grandi multinazionali statunitensi. Un Paese in cui, pur fra tensioni etniche e classiste mai sopite, l’interventismo dello Stato ha saputo riconvertirsi a funzioni di carattere propulsivo ed in cui e’ stata elaborata una legisl azione del lavoro garante dei diritti della classe operaia. Non e’ dunque un caso se in India sono poi emersi alcuni gruppi industriali, quali il gruppo Mittal nell’acciaio, che hanno saputo affermarsi a livello mondiale. Tuttavia anche in India, il forte e non sempre trasparente intreccio tra affari e politica, rischia per il futuro di minare la fiducia degli investitori stranieri.
Oltre a Cina ed India, altri Paesi aumentano progressivamente il loro peso sul proscenio globale, come il Brasile, la Russia ma anche il Sudafrica, la Turchia e l’Australia. In ognuno di questi Paesi il capitalismo ha assunto caratteri peculiari, per molti tratti differenti dal capitalismo originario, di stampo anglosassone.
Si tratta ora di vedere, come afferma Valerio Castronovo, se questo universo economico dara’ luogo ad un processo di sviluppo sostenibile e socialmente responsabile ed assecondera’ un’evoluzione delle istituzioni politiche o non finira’ piuttosto per formare un arcipelago di nuove élites oligarchiche e di nuove derive nazionalistiche.

Alfonso Siano

 

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