9 maggio: Giorno della Vittoria o Giornata dell’Europa?

Di Edoardo Crisafulli

Berlino, 30 aprile 1945, macerie fumanti. Finalmente i soldati sovietici issano la bandiera rossa sul tetto del Reichstag, il parlamento tedesco. La foto dell’evento è iconica: ci restituisce un’immagine evocativa della caduta “wagneriana” degli dei. Eccola, la fine tragicamente cruenta dei deliri di onnipotenza e di sterminio di Hitler: la capitale del Reich millenario in fiamme. Un megalomane criminale partorì un’ideologia aberrante, il nazismo, che contagiò una nazione fra le più civili. Oltre cinquanta milioni di persone furono falcidiate, annullate dalla furia bellica. All’incirca metà di loro: cittadini dell’ex Unione Sovietica. Impossibile, per noi antifascisti, non aver gongolato un momento alla vista della bandiera rossa che soppianta quella, lugubre, con la croce uncinata. Era sacrosantemente giusto che fossero i sovietici a conquistare Berlino, no? Ogni anno a Mosca si celebra con gran fasto l’anniversario di quella che i russi hanno ribattezzato la Grande guerra patriottica – se avesse vinto Hitler, i “subumani” slavi sarebbero divenuti bestie da soma. Il problema è che i russi si sono appropriati della vittoria in chiave nazionalistica e per autoassolversi dalle loro magagne.

La mia esperienza ucraina mi ha aperto gli occhi. Ora vedo, ben nitide, le crepe nella narrazione retorica e ideologica rinfocolata ogni 9 maggio in Russia. E noto ancor più l’ipocrisia degli intellettuali “complessisti” e radical-chic. I quali, dal 24 febbraio 2022, data in cui Putin scatena l’operazione speciale, ripetono un mantra: la storia è complessa, non è tutto in bianco e in nero; mica esistono i buoni e i cattivi come nei film di Hollywood! Qui c’è un cortocircuito logico: da quando porto i calzoni corti, i complessisti della sinistra radicale demonizzano i fascisti inesistenti (= i cattivi) e mitizzano l’Armata rossa e i sovietici (= i buoni). Gli ucraini quelle crepe le vedono dall’anno in cui conquistarono l’indipendenza, il 1991. Eppure le parate del Giorno della vittoria, il 9 maggio, ci sono sempre state, a Kiev. Dal 2014, allorché comincia l’aggressione russa, l’umore nel Paese è mutato. Alcuni miei amici ucraini non partecipano più alle parate di un evento monopolizzato dai loro invasori. “Sì, nel 1945 ci liberammo dal mostro nazista. Ma a una dittatura, quella nazista, ne subentrò un’altra: quella sovietica, che già conoscevamo peraltro. In quasi ogni famiglia ucraina c’è un morto a causa delle politiche staliniane (la carestia detta Holodomor, i gulag ecc.). Sì, è vero che dopo la destalinizzazione la tirannide divenne meno brutale. Ma pur sempre tirannide era. Ah, com’è tutto così semplice, per la sinistra europea! Potete idealizzare l’Armata rossa senza alcun travaglio interiore: furono gli angloamericani a liberarvi. Siete voi quelli che vivono in un film di Hollywood…” Come dar torto agli ucraini?

Fu così eroica e senza macchia l’Armata rossa nel 1941-45? Beh, di certo i soldati sovietici non andarono per il sottile nel rivalersi sui tedeschi. Viene in mente, naturale, la nemesi: giustizia riparatrice e non già mera vendetta. I nazisti avevano fatto di peggio. Sta di fatto che colpisce la ferocia delle ritorsioni: centinaia di migliaia i civili tedeschi uccisi o morti nei campi di lavoro, circa un milione le donne tedesche (tra cui bambine e anziane) stuprate — molti gli stupri di gruppo, ripetuti, finché le donne non perdevano i sensi, il senno e, talora, la vita stessa. E vogliamo parlare dei prigionieri di guerra tedeschi a cui non fu applicata la Convenzione di Ginevra? Non mi riferisco alle carogne note come SS: parlo dei due milioni di soldati della Wehrmacht detenuti nell’URSS. Almeno quattrocentomila morirono a seguito di maltrattamenti, freddo e denutrizione. Forse fu davvero nemesi: i tedeschi avevano causato la morte di circa tre milioni di prigionieri sovietici. Incappiamo in un bel problema teorico: un crimine di guerra rimane tale anche se è una ritorsione “comprensibile”?

C’è un altro problema, più serio: come giustificare i crimini “gratuiti” compiuti dai sovietici? Per esempio la deportazione, ordinata da Stalin, dei tedeschi del Volga, i quali avevano costituito una leale Repubblica socialista sovietica: era da fine Settecento che vivevano in quelle terre. Morirono a decine di migliaia, senza colpa, sulla via del Kazakhistan o della Siberia. Stesso infame destino toccò ad altre etnie o gruppi religiosi ritenuti potenzialmente sovversivi. Orrenda la sorte dei tatari di Crimea, che nel 1944 fu spopolata su ordine di Stalin. Alcuni tatari – non tutti – avevano collaborato con i tedeschi. La vendetta s’abbatté su tutta l’etnia tatara: così Stalin poté ripopolare la Crimea con coloni russi fedeli al partito. Chi sentenzia sulla Nakba palestinese dovrebbe documentarsi su questa infame pulizia etnica. Circa duecentomila innocenti (fra cui anche qualche italiano!) strappati con la violenza dalle loro case. Almeno cinquantamila morirono di stenti. Fatti storici, questi, ampiamente documentati. Eppure in Russia continuano a negarli platealmente: tutta propaganda occidentale!

Fu così eroica e senza macchia l’Armata rossa? Non di certo nel 1939, quando occupava illegalmente i territori orientali della Polonia, e vi spadroneggiava in pieno accordo con i nazisti. Né era eroica e senza macchia quando fucilava con gran zelo circa quindicimila ufficiali polacchi a Katyn – nel macabro computo andrebbero inclusi gli altri prigionieri di guerra polacchi (migliaia!) ammazzati o fatti morire in Russia durante la Grande guerra patriottica. Che bisogno avevano i sovietici di vendicarsi su un popolo, quello polacco, che non gli aveva torto un capello? L’eccidio di Katyn fu addossato ai nazisti. Gorbaciov, il riformatore, ammise che erano stati i sovietici.

Sarebbe ingeneroso, però, negare l’eroismo dell’Armata rossa durante l’invasione nazista: fu dissanguata per via delle folli strategie militari di Stalin. Dopo Stalingrado era evidente che la Germania avrebbe perso. Il 1943 era il momento ideale per sbarcare in Normandia. Stalin, in effetti, chiedeva agli Alleati l’apertura di un nuovo fronte. Ma non si impuntò – “o il D-Day lo fate quest’anno, oppure io fermo le mie controffensive.” Il dittatore georgiano agiva in base alla più spietata Realpolitik, fregandosene di ogni considerazione umanitaria. Alla Conferenza di Teheran, nel novembre del 1943, stipulò una sorta di patto occulto con gli angloamericani: vite dei giovani sovietici in cambio del dominio comunista sull’Europa orientale. Furono cinici gli Alleati? Sì, ma per ragioni opposte a quelle di Stalin: né gli inglesi, né gli americani gradivano l’idea di campi da battaglia disseminati con i corpi dei loro ragazzi. Ecco perché lo sbarco in Normandia fu programmato nell’anno, il 1944, in cui avevano totale superiorità aerea e la Wehrmacht era in ginocchio. Se lo sbarco fosse avvenuto uno o due anni prima, gli angloamericani avrebbero perso un milione di soldati in più per spezzare le reni alla Germania. Stalin, a Teheran, non batté ciglio: da sempre in Russia la vita umana non vale un fico secco. In palio c’era un’esca troppo ghiotta: il dominio sull’Europa orientale, appunto. Così l’imperialista Stalin sacrificò milioni di soldati sovietici nella folle corsa verso Berlino: carne da cannone, qui, è espressione appropriatissima.

Intendiamoci: che i popoli dell’ex URSS avessero il sacrosanto diritto di difendersi dai nazisti, nessuno può negarlo. I sovietici però non avevano alcun diritto di sfruttare il sacrificio di quei popoli per soggiogare l’Europa orientale. Nel 1943 un Churchill commosso regalò a Stalin la celebre “Spada di Stalingrado”, come omaggio del popolo britannico ai difensori della città assediata. Stalin, che non peccava di sentimentalismo, appena due anni dopo rinnegherà tutte le promesse fatte agli inglesi circa la libertà nelle nazioni europee finite sotto le sue grinfie: lì, dopo il 1945, non si svolse neppure una elezione democratica! Teniamo questo bene a mente: gli esperti di geopolitica vorrebbero ripristinare le sfere d’influenza della Guerra fredda.

Gli angloamericani invece i patti li rispettarono, eccome. In Italia ci furono libere elezioni e poterono candidarsi tutti i partiti di sinistra – compreso il Partito comunista, che era finanziato da Mosca. La Costituzione repubblicana non fu scritta anche da fior fiore di socialisti e comunisti – Nenni, Pertini, Terracini, Togliatti? Nessuno fu messo fuori legge. Eppure la sinistra radicale è tuttora visceralmente antiamericana e filosovietica. Ragion di più per non festeggiare la Festa della vittoria. Lo confesso: mi piace l’immagine un po’ stucchevole del carro armato americano che libera il campo di sterminio nel film di Benigni, “La vita è bella”. Il T 34 sovietico evoca, in me, l’Ungheria nel 1956, Praga nel 1968.

La triste verità è che il pegno per la guerra hitleriana l’hanno dovuto pagare i popoli dell’Europa orientale: cinquant’anni di dittatura e di miseria. Erano forse debitori di qualcosa? Dagli Stati baltici, alla Polonia, all’ex Cecoslovacchia (oggi Repubblica Ceca e Slovacchia), all’Ungheria, alla Romania, alla Bulgaria: un solo sogno: la libertà! Oggi i cittadini di quelle nazioni sono avvinghiati all’Unione europea come un feto alla mamma. E temono l’orso russo. Possiamo dargli torto? O preferiamo berci la propaganda russa, che sproloquia sulla russofobia immotivata?

Io, antifascista fin nel midollo, non festeggerò il 9 maggio inteso come Festa della vittoria sovietica. Ho il mio 25 aprile, e me lo tengo ben stretto. Sarò accusato di revisionismo storico. Non m’importa. Sono io che accuso voi, studiosi marxisti coccolati nelle libere università europee: siete negazionisti ipocriti. Per decenni non è stato possibile dibattere dei crimini sovietici, pena l’accusa infamante: sei un neofascista mascherato. Io, in quanto antifascista, sono antitotalitario. Sono troppi anni che ci sorbiamo la propaganda russa, sono troppi anni che élites autoritarie, liberticide, criminali traggono la loro legittimazione politica dalla vittoria militare contro il nazifascismo. Se fossero coerentemente antifascisti, i leader russi – e i loro amici radical-chic italiani – sarebbero antitotalitari. E quindi celebrerebbero i valori dell’Unione Europea: unità, pace, libertà, democrazia, giustizia sociale. Non c’è un modo migliore per festeggiare la sconfitta di Hitler e Mussolini.

C’è un altro 9 maggio, però! È la Giornata dell’Europa. Io, oltre al 25 aprile, ho nel cuore quella data lì: il 9 maggio 1950 l’allora Ministro degli Esteri francese Robert Schuman rilascia una dichiarazione rivoluzionaria – nasce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), il primo coagulo dell’Unione Europea. L’Italia (con Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) è fra i Paesi fondatori di questa prima istituzione europea sovranazionale. Schuman propone un’inedita forma di collaborazione politica ed economica, nel segno della fratellanza. Così una nuova guerra nel cuore del vecchio Continente sarà impossibile e impensabile. La proposta di Schuman è il primo vagito dell’Europa unita, un’Europa libera e democratica, fondata sui diritti individuali e sul Welfare State o Stato sociale.

Ecco che l’europeismo visionario del nostro Altiero Spinelli, che pareva troppo utopistico, comincia a camminare su gambe forti, muscolose. L’Europa occidentale, quel memorabile 9 maggio 1950, sceglie il ripudio della guerra e della forza quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Opta per la diplomazia, la solidarietà, l’amicizia, l’integrazione. Non opportunisticamente o a livello tattico. La scelta è strategica, nonché definitiva. O L’Europa unita e pacificata o il caos, avrebbe detto Pietro Nenni. Attendiamo, fiduciosi, che anche la Federazione russa un giorno s’incammini sulla stessa strada. Intanto io celebro il mio 9 maggio senza la bandiera rossa con la falce e il martello: gronda troppo sangue. E chi la sventola nel cuore dell’Occidente libero sprizza troppa ipocrisia e falsità.

N°113 del 9/05/2023

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