Sars-CoV-2: terrorismo di plastica?

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

Per parafrasare il titolo di un libro di Paolo Zellini, i numeri si ribellano. E si ribellano, soprattutto, alla stupidità con la quale vengono esibiti: in termini assoluti e senza contestualizzazione. È un fenomeno che avviene spesso, ma mai così diffusamente come da mesi con l’epidemia da Sars-CoV-2. Lo scopo, forse, è spargere un terrorismo, ingenerare il panico per far sì che certe regole si rispettino in modo più rigoroso?

Precisiamo: le leggi si rispettano, soprattutto quando si tratta di salvaguardare l’altrui salute oltre che la nostra personale. Questa non è limitazione di libertà, ma il suo compimento massimo che, oltre a quella del singolo, presuppone anche quella di coloro cui ci si approssima.

Ciò detto, per quale ragione – è bene domandarselo – media e scienziati delle più svariate specializzazioni (pochi virologi competenti, troppi epidemiologi, infettivologi ed entomologi: paravirologi, in sostanza) insistono ogni giorno nel mettere gli italiani in guardia, nel dire loro che le cose peggioreranno se non si porrà subito un freno a questa situazione invocando un nuovo lockdown addirittura, che ci è rimasto poco tempo per agire, che il Sars-CoV-2 è altamente letale? Quale, ci si dovrebbe domandare, lo scopo di questa comunicazione terroristica?

Dall’altro lato, le cifre che ogni sera sono comunicate attraverso il consueto bollettino di guerra, se interpretate in modo appropriate smentiscono i proclami da timor panico di certa fazione del mondo della scienza.

Siccome non tutti possono adeguatamente leggere i dati statistici, rimangono due soluzioni: affidarsi al buon senso e, perciò, all’oggettività della situazione; oppure prestare fede a quanto comunicato. Questa seconda ipotesi – l’atto di fede acritico – è precisamente la tendenza comportamentale da molti adottata. La strada più semplice e banale, che presuppone una moltitudine di individui privi di senso analitico.

Stando così le cose, proviamo a fornire una chiave di lettura dell’attuale situazione nella speranza che possa tornare utile.

Partiamo da un articolo scientifico annunciato in Pre print (pubblicazione in attesa di essere accettata) su «Nature» ed  evocato da Maria Rita Gismondo alla fine dello scorso Agosto sul «Fatto Quotidiano». In questo scritto, un gruppo di ricercatori della Florida sosteneva che il virus aveva subito “la mutazione D614G nella proteina spike Sars-CoV-2 [la quale ne] riduce la diffusione di S1 e [ne] aumenta l’infettività”. Tradotto in termini più semplici, si tratta di una mutazione che renderebbe il virus in oggetto più contagioso ma meno aggressivo. I fatti di questi giorni pare diano ragione ai ricercatori succitati. Effettivamente, stiamo davvero assistendo ad una diffusione massiccia di Sars-CoV-2 fra le persone, la cui maggioranza dei soggetti positivi (95%) non presenta sintomi, lo 0,5% ha bisogno di terapie intensive, l’1,5% ha sintomi più seri che possono richiedere ricoveri ospedalieri (alcuni di natura sociale, altri di tipo clinico), mentre la restante parte – il 3% – risolve l’eventuale malattia stando a casa in isolamento.

Altra questione. Sempre sul «Fatto Quotidiano», citando un articolo di Richard Horton pubblicato su «Lancet», Maria Rita Gismondo avanzava un’ipotesi che qui di seguito si riporta: “[Nella diffusione del Sars-CoV-2] interagiscono due categorie di malattie: l’infezione dovuta a Sars-CoV-2 e una serie di malattie non trasmissibili. Queste condizioni si raggruppano all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società. Secondo Horton non è una pandemia, ma una sindrome (più elementi patologici). Significa che è necessario un approccio più sfumato. Limitare il danno richiederà un’attenzione maggiore alle malattie non trasmissibili e alla disuguaglianza socioeconomica. Le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra condizioni e stati, interazioni che aumentano la suscettibilità di una persona a danneggiare o peggiorare i loro risultati di salute. Da qui la deduzione logica che, piuttosto che esclusivamente tracciare il virus, bisogna agire sulle condizioni che lo favoriscono. Eliminare, ove possibile, l’esposizione degli anziani e dei malati cronici, migliorare le condizioni sociali. Detto così, ci stupisce meno, visto che molti di noi abbiamo affermato che si tratta di un opportunista. Dobbiamo, lo fa intendere anche Horton, eliminare le opportunità che rendono facile al virus di colpirci”.

A corollario di quanto fin qui esposto, si aggiungano anche le recenti affermazioni di Giorgio Palù nel corso di un’intervista televisiva a tutti visibile su Youtube: “Avere il 95% di soggetti positivi al test (tampone molecolare) non equivale ad avere il 95% di persone potenzialmente contagiose, poiché non è detto che l’acido nucleico rilevato possa essere infettante. Studi in vitro hanno dimostrato che l’infezione è possibile quando in un campione clinico si trovano almeno 1 milione di genomi equivalenti”. Relativamente al Sars-CoV-2, prosegue Palù, “non vi è ancora un test che dosi la sua carica virale in quanto ancora non vi è un farmaco specifico. Essere asintomatico non vuol dire essere malato né contagioso. Con il 95% di asintomatici in Italia, qual è il senso di inseguirli e tracciarli? E con quale scopo: azzerarne il contagio? Dal punto di vista razionale è un nonsenso, dal punto di vista scientifico è non perseguibile e non giustificabile. Questa operazione, semmai, aveva un senso all’inizio della diffusione epidemica”.

Stando così le cose, allora, perché non tutelare le persone più a rischio – anziani e soggetti con un quadro clinico altamente critico – e lasciare che gli altri tornino a vivere una vita normale, con le dovute precauzioni nei confronti di coloro per i quali l’infezione da Sars-CoV-2 si rivelerebbe pericolosa se non fatale?

E senza dimenticare, ovviamente, le relative riforme sul piano sanitario. Oggi più che mai necessarie. Oggi più che mai ancora inattuate.

 

pierlu83

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