La Fondazione Nenni al Congresso FENEAL UIL: Quadro Generale sull’edilizia

– di FEDERICO MARCANGELI –

In questa giornata a Pacengo di Lazise si è tenuta la seconda giornata del XVII Congresso Nazionale FENEAL UIL (Federazione nazionale lavoratori edili affini e del legno) in vista del rinnovo della segreteria e degli altri organi del settore (esecutivo, delegati e tesoriere).

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Il primo intervento ha introdotto dei dati interessanti sul settore edilizia, basandosi sugli studi elaborati dal CRESME. Lorenzo Bellicini ha infatti portato avanti un discussione molto composita sull’intero comparto. In primo luogo ha sottolineato l’importanza di una, seppur non completa, ripresa. Il fattore “completezza” è proprio il problema chiave di questa ripresa, che stenta ad includere l’intera penisola. In questo quadro, le regioni più virtuose pre-crisi sono anche quelle con una ripresa più forte e ciò causa un aumento del gap tra aree ricche e povere d’Italia. Questa crescita dei “differenziali regionali” è certamente un problema che, se non affrontato con misure ad-hoc, non può che crescere con il tempo. Comunque, facendo una media nazionale, il settore dell’edilizia italiano è tornato a crescere dal 2016 e dal 2018 tutti i comparti dello stesso hanno visto un segno positivo. Nonostante ciò, le proiezioni parlano di numeri complessivi ancora inferiori rispetto ai livelli pre-crisi (almeno fino al 2021).

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La cartina di tornasole di questa crescita è rappresentata da un dato chiave, in aumento netto rispetto al passato: le nuove costruzioni (residenziali e non). Non sono escluse da questo trend positivo le compravendite, ma anche in questo caso il differenziale tra le regioni è importante. In alcune città del centro-nord i dati rivelano delle cifre molto vicine ai livelli pre-crisi (come a Siena ad esempio), mentre al sud abbiamo realtà che segnano anche un -60% rispetto al decennio scorso. Un discorso diverso va fatto per le opere pubbliche, per le quali la situazione è paradossale. Durante gli ultimi 3-4 anni sono state rese disponibili ingenti risorse, che però gli enti locali non sono stati in grado di sfruttare. Uno spunto di riflessione interessante considerando la narrativa giornalistica degli ultimi anni, che ha sempre parlato di un’assenza cronica di risorse per le infrastrutture.
Dopo questo quadro generale, i dati del CRESME hanno mostrato  ulteriori sfaccettature dell’edilizia italiana. In particola modo si mostra quanto l’evoluzione del mercato abbia portato ad uno spostamento verso la “manutenzione” del settore costruzioni italiano (rispetto ai fatturati pre-crisi). Secondo le stime del centro studi, il 75% del mercato dell’edilizia è composto da manutenzione e riqualificazione degli immobili (buona parte del quale composto da micro interventi). Anche gli acquirenti stranieri hanno intuito questa caratteristica del patrimonio immobiliare italiano, orientandosi sempre più ad investimenti basati sui costi di manutenzione e sulla qualità dell’immobile. Appare quindi evidente che occorrerà focalizzarsi sempre di più su questo specifico segmento, considerando che i capitali fluiti in italia nel settore immobiliare sono di circa 8 miliardi.
Ma la manutenzione ordinaria non è l’unico aspetto su cui le imprese (e l’Italia in generale) dovrà investire. In particolare l’edilizia sismica rappresenta un settore ancora non sufficientemente sviluppato, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione del rischio. L’Italia ha infatti investito poco in questi anni in termini di incentivo alla prevenzione, spendendo invece molto per i rimedi post-sisma. I dati parlano chiaro: 13 miliardi l’anno spesi in media tra il 2010 ed il 2013, mentre 23 miliardi l’anno nel triennio successivo. Cifre che mostrano chiaramente quanto si sarebbe potuto investire per prevenire questi eventi nefasti.

La realtà del mercato edilizio non è però statica. Siamo all’inizio del 7o ciclo dell’edilizia, che taglierà fuori molti imprenditori e aziende, perché rivoluzionerà il settore senza possibilità di ritornno. La chiave di questo nuovo ciclo sarà l’innovazione: tecnologica ed imprenditoriale. L’edilizia si sta infatti rivolgendo verso una sempre maggior preponderanza degli impianti rispetto alla struttura (in vent’anni si è passati dal 6-7% al 20-25% rispetto al valore totale dell’immobile). Questi necessitano una grande conoscenza tecnologica ed ingenti investimenti in termini di formazione e nuove tecnologie costruttive (costruzioni in stampa 3D, nuovi materiali e molto altro).
In quest’ottica di aumento degli investimenti futuri, occorre focalizzarsi sull’ottimizzazione del mercato dell’edilizia. Un lavoro molto complesso, perché il settore è uno dei pochi in cui è la fabbrica (cantiere) a muoversi, mentre il prodotto rimane localizzato.  E’ stato sottolineato quanto sia difficile questo processo di razionalizzazione, ma è una prova importante per consentire al settore di ritornare a crescere con costanza. Questo consentirebbe all’Italia di limitare i danni di un futuro ingresso dei colossi cinesi sul mercato europeo (che già sta avvenendo). Tali aziende rappresentano infatti una realtà globale in crescita costante, soprattutto grazie all’ingente disponibilità di capitali. Si pensi che 7 delle 10 maggiori imprese di costruzione globali provengono dalla Cina. Anche nella classifica delle aziende con maggior fatturato all’estero stanno entrando prepotentemente i colossi dell’est e questo sta già causando una diminuzione di introiti per le imprese europee (ad eccezione di quelle spagnole ed italiane).

A chiudere questa tranche abbiamo assistito ad un breve focus sui subappalti. Il loro utilizzo in Italia è caratterizzato dalla necessità di non far crescere i costi marginali delle imprese. In tal modo si creano dei subappalti orizzontali (non specializzati),che snaturano la natura stessa del subappalto, nato per esigenze di efficienza e non di economicità.

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Il secondo intervento è stato quello del Professor Mario Abis della IULM University, che si è soffermato sugli aspetti sociologici dell’abitare e dei suoi cambiamenti. Secondo il Professore, la domanda dell’abitare sta cambiando e quindi anche l’offerta dovrà mutare (e sta mutando) di conseguenza. Non stiamo parlando solo delle soluzioni abitative, ma anche dei servizi. Non a caso il gradimento riguardo questi ultimi è in decrescita costante dal 1996, segno di un necessario adeguamento rispetto ai tempi.  Sotto tale ottica, assumono crescente valore le città, sia come erogatrici di servizi che come continuazione dello spazio vitale privato. Degli investimenti importanti sotto questo fronte segnerebbero non solo un grande aumento di soddisfazione dei cittadini, ma anche una crescita del PIL. Per quanto riguarda le abitazioni, esse sono diventate un “rifugio” durante la crisi, causando di conseguenza un’aumento delle esigenze dei cittadini.
Questa necessità di cambiamento si integra però con le percezioni storiche che gli italiani hanno riguardo le abitazioni: investimento sicuro, stabilità, status sociale ed eredità per i figli.

 

Dopo questo intermezzo ci si è focalizzati su aspetti di respiro più ampio, grazie all’intervento del Segretario Generale della Confederazione Europea dei Sindacati Europei, Luca Visentini. Il punto chiave dell’intervento è stato quello di dover capire le motivazioni dell’ascesa dei populismi, che è stata supportata dalle fasce più deboli e in crisi della popolazione. Non a caso le aree che più hanno spinto verso la Brexit sono state quelle che, più di tutte, hanno risentito negativamente della crisi. Il sindacato deve interrogarsi su come rispondere a queste esigenze irrisolte. Le risposte della politica sono state infatti sulla stessa linea delle cause della crisi. Sulla linea del neoliberismo, si è entrati in un loop di deregolazione, lo stesso che è alla base del disastro economico post-2008, soprattutto nei settori finanziario ed edilizio. Le proposte per tornare a crescere non si discostano da questi principi: diminuzione dell’intervento statale e contratti più flessibili. Questo ha causato una parcellizzazione sempre maggiore del lavoro, con sempre più lavoratori da impiegare in fasce temporali inferiori. Le soluzioni dovrebbero invece essere quelle di tornare ad investire, soprattutto da parte dello stato, ed a far crescere il potere d’acquisto dei cittadini. In tal modo si riporterebbe ad equilibrare la bilancia “domanda interna/export”, uscendo dall’ottica export-centrica tedesca. Sul piano dei salari si è infatti diffuso il falso mito di un’aumento della competitività direttamente proporzionale all’abbattimento degli stipendi. La realtà è diversa. I dati mostrano quanto i salari più alti  garantiscano dei livelli di produttività maggiore e di conseguenza una produttività sicuramente superiore.
Ma come si arriva a questi obiettivi? Partendo dal contratto collettivo nazionale. Questo strumento è l’unico efficace per aumentare in modo strutturale i salari, ma esiste in soli 7 paesi europei. Esso viene inoltre minacciato dai “contratti pirata“, non firmati dalle confederazioni e che puntano ad un dumping salariale e sociale. La sfida è quella di avere una strategia europea comune tra i sindacati, allo scopo di contrastare queste forme contrattuali scorrette. In questo modo si riuscirebbero anche ad arginare le grandi multinazionali che, visto il loro sempre maggior potere, sfruttano questi contratti per abbattere il costo del lavoro.

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