-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Le elezioni politiche in Italia impongono un profondo ripensamento dei paradigmi tradizionali della politica e delle sue chiavi interpretative.
Il cosiddetto “populismo” in primo luogo, definizione di comodo dei sedicenti “maître à penser” del politicamente corretto nel nostro Paese che si esibiscono nell’avanspettacolo dei nostri talk show, etichetta di comodo per contestare ogni proposta politica tendente a riaffermare il principio di sovranità del popolo, ritenuta, invece, espressiva, dei fascismi del ‘900.
Non si può intendere nei richiami (quelli genuini!) al popolo, un ritorno delle ideologie totalitarie fondate sull’idea del capo assoluto, ma una conseguenza della crisi generale del principio di rappresentanza democratica e legittimità delle istituzioni, messo in crisi dalla prevalenza delle tecnocrazie legate agli interessi del capitalismo globale, che ha creato nuove secessioni sociali e nuove povertà, che riguardano, ormai, anche ampie fasce del ceto medio.
La mondializzazione come grande frattura sociale tra ristrette élite, una politica debole e privatizzata e un esercito crescente di esclusi, che richiama alla mente le descrizioni dei romanzi sociali, come “I miserabili” di Victor Hugo, “Germinal” di Émile Zola o “Tempi difficili” di Charles Dickens”, con i tentativi di omologazione culturale e l’imposizione del meticciato derivante dalle ondate migratorie, nonché con processi di deterritorializzazione, per arrivare ad una società globale transnazionale, non fondata su principi di libertà ed uguaglianza delle grandi utopie del pensiero umano, ma di gerarchizzazione sociale, in cui una sorta di nuovo Leviatano, secondo la descrizione di Hobbes, è al servizio del mercato e della finanza
E il cosiddetto “neo-populismo” si muove in una prospettiva antagonistica rispetto a quella della mondializzazione economica e culturale, rivolgendosi direttamente ai cittadini per contestare l’egemonia delle élites, tecniche, finanziarie e mediatiche e delle forze politiche ad esse subalterne, considerate come un’oligarchia separata dal popolo. Esso si pone al di sopra della vecchia divisione destra-sinistra e, quindi, oltre le tradizionali ideologie invero sempre più sfumate tra loro, che è una divisione “orizzontale”, proponendo invece una divisione “verticale”: quelli che stanno sotto, contro quelli che stanno giù, nell’inferno sociale. La stessa contrapposizione tradizionale tra unità delle nazioni e valore dell’autodeterminazione appare meno nitida, come testimonia la vicenda della Catalogna, in cui, ad un tempo, nella rivendicazione ad uno Stato autonomo confluiscono i due principi.
Se si vuole assorbire il cosiddetto “populismo” la politica tradizionale deve riscoprire il senso fondamentale della solidarietà sociale e l’importanza dello spirito comunitario e dei corpi intermedi, prendendo le distanze da un’antropologia liberista che fa della massimizzazione degli interessi privati da parte dell’individuo il motore di ogni attività umana, all’insegna dell’ “homo homini lupus” di Plauto.
C’è bisogno di riprogrammare la politica sulle coordinate di una nuova democrazia inclusiva, che restituisca la rappresentanza e i diritti, in primo luogo sociali, al popolo: questo il messaggio alla politica italiana scaturito dalle urne il 4 marzo: saprà essa farne tesoro?