Tre “patti” per dare robustezza alla ripresa

-di SANDRO ROAZZI-

L’economia cresce ma non come dovrebbe. Eppure i margini di manovra, pur limitati, sembrano offrire prospettive utili per rafforzare una ripresa la cui zavorra è sempre la stessa: troppe incertezze ed il timore di passi falsi. Del resto le contraddizioni nel mondo non mancano: i criticati Usa di Trump viaggiano verso la piena occupazione ma al tempo stesso la finanza (assieme ai mega gruppi dell’era digitale) spera di tornare ad avere margini di libertà incontrollata, gli stessi o quasi che ci fecero precipitare nel baratro della recessione. La Cina cresce a ritmi ancora sostenuti ma manca ancora quella espansione della domanda interna che farebbe bene… ai cinesi come pure al commercio mondiale. Eppure già più di 100 milioni di cinesi possono permettersi ormai un viaggio all’estero.
In Europa i problemi non mancano ma certamente non si sono acuiti dopo la sberla presa dai populismi nelle recenti elezioni olandesi e francesi. Si è ridotto quasi al silenzio il loro messaggio, anche se la Bce continua a pompare liquidità a causa di una inflazione ancora modesta e di tassi di crescita non male ma… sempre in prova. Per giunta Moody’s ci avverte che rispetto al 2008 si sono perse montagne di investimenti, con imprese più… “liquide” ma restie a ritrovare la strada del rischio imprenditoriale. I conti si faranno in autunno. Negli anni ’90 erano le tempeste valutarie o finanziarie agostane a preannunciare l’agenda dei problemi da affrontare. Oggi le Banche centrali sono meglio attrezzate mentre sono assai più difficili le svalutazioni competitive,  scomparse in Europa grazie all’avvento dell’euro.

Eppure le questioni aperte non mancano. Nel nostro Paese per l’ennesima volta si profila una ripartenza degli investimenti pubblici nelle grandi opere, le sole che possono garantire lavoro e reddito. La speranza è che non sia una falsa partenza. Il valore di questa scelta è duplice: riattivare il ruolo dello Stato in economia troppo a lungo esorcizzato da liberismi arruffoni o da buffonate leghiste (nei confronti del sud); riconquistare e tenere fette di territorio che non devono essere lasciate né al proliferare delle diseguaglianze né in mano alla criminalità organizzata. Manca però un tassello fondamentale: un piano di messa in sicurezza del territorio, organico e dotato di risorse certe. E manca più in generale soprattutto quella forza “politica” che può nascere solo da un patto pluriennale fra i protagonisti dei partiti, abbandonando la ottusa tutela due propri campanili. E non ci si è ancora liberati di un modo di agire degli anni ’90 che ha trasformato con le privatizzazioni i grandi gruppi di proprietà dello Stato da monopoli pubblici a potentati con le stesse caratteristiche. La prossima fusione fra Ferrovie ed Anas risente di questa impostazione, pur costituendo una indubbia opportunità.

Un secondo patto sarebbe assai utile e riguarda la necessità di convergere su politiche del lavoro chiare ed in grado di offrire alle imprese garanzie sul futuro. Il balletto delle proposte su questo versante, dai tagli al cuneo fiscale alle agevolazioni a pioggia per i giovani, crea solo insicurezza e provoca ritardi quando invece appare evidente che il mercato del lavoro sta correggendo da solo la rotta verso una nuova stagione di precarietà.

Un terzo patto sarebbe necessario sul piano fiscale con un poderoso riordino della materia: troppi interrogativi sono ancora in ballo, dalla mancata riforma dell’IRPEF al destino dell’Iva, alla effettiva riduzione dell’area della grande evasione fiscale.

Tre patti da proteggere dal clima elettorale ormai fin troppo incombente e nel quale trovare spazio per un ruolo nuovo delle forze sociali che non possono essere considerate dei “clienti” delle politiche economiche ma semmai attori nelle dinamiche che possono aiutare a dare stabilità all’economia reale. Ad esempio resta latente ma del tutto irrisolta una grande questione come quella salariale dopo anni ed anni di moderazione retributiva. Un tema proprio delle relazioni industriali ma con una forte influenza sugli andamenti economici e sociali.

Invece sembrano prevalere i soliti rituali, le solite divisioni e contrapposizioni. Tutto condito da slogan di maniera ed in quanto tali per nulla convincenti. Il ritardo peggiore, insomma, è quello della politica che dopo aver bruciato dietro di sé tutti i vascelli della prima Repubblica si vede costretta a riesumare scelte del passato ma senza poter contare su una classe dirigente all’altezza. Eppure il tempo stringe ed il treno di un migliorato clima economico non va lasciato passare invano.

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