-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Una nuova “emergenza idrica” affligge il Mezzogiorno. Ma le responsabilità non devono essere ricercate solo nell’evidente deficit di cultura di governo del ceto politico meridionale. Né si può attribuire la penuria idrica esclusivamente a condizioni di contesto come la scarsità “man-made”, cioè prodotta dall’uomo, per il sovrasfruttamento degli acquiferi, l’inquinamento delle falde, l’urbanizzazione selvaggia, l’obsolescenza della rete (si guardi proprio alla provincia di Messina), l’abusivismo “tollerato” e opere pubbliche che hanno come evidente effetto collaterale il depauperamento del bene collettivo dell’acqua.
Infatti, la cosiddetta “emergenza idrica” discende in primo luogo dalla cattiva gestione e dalla privatizzazione dell’acqua, mercificata e consegnata alle grandi lobby economico-finanziarie ed ai gruppi politici di riferimento, che scandalosamente hanno eluso l’esito del referendum del 2011 (già il Popolo è sempre meno sovrano!) con il recente decreto Madia sui servizi pubblici locali che prevede l’obbligo di tenere conto della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. Dallo “Sblocca-Italia” sino alla Legge di Stabilità del 2016 del Governo-Renzi, si è operato per privatizzare i servizi pubblici a rete.
Ciò avviene in un contesto globale in cui, un miliardo e 400 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile, e la Banca Mondiale stima che entro il 2025 si arriverà a 2,5 miliardi: una sorta di “oro blu” controllato dalle multinazionali, con gravi conseguenze sulla vita delle persone e sulla stessa democrazia. Privatizzare l’acqua ha come conseguenza affidare un bene primario ed indispensabile alla logica del profitto e del mercato, riducendo la partecipazione democratica dei cittadini nelle decisioni sulla gestione. Se fino ad oggi l’acqua era considerata una risorsa vitale di cui la collettività attraverso l’intervento pubblico si faceva carico, oggi diventa una vera e propria merce destinata a chi può pagarla, come ha scritto l’ambientalista ed attivista indiana Vandana Shiva nel 2003 nel libro “Le guerre dell’acqua”.
La privatizzazione dell’acqua è una delle tante facce oscure della globalizzazione, si pensi che i prestiti concessi dal Fondo monetario internazionale a molti paesi africani, poveri e indebitati, hanno ormai una condizione comune: l’affidamento delle risorse idriche ai privati e il completo rientro sui costi del servizio pubblico. Anche l’Unione europea si muove su questo versante, condividendo, com’è evidente, il dogma liberista. Una delle condizioni imposte dalla Commissione europea, di concerto proprio con l’FMI e la Banca centrale europea, la famigerata “Troika”, per i “salvataggi” degli Stati a rischio d’insolvenza del proprio debito sovrano, è stata la privatizzazione dei servizi idrici come nel caso di Grecia e Portogallo. La questione che si deve porre è che il finanziamento del servizio idrico integrato fondato sul “full cost recovery”, il costo totale del servizio integralmente coperto dalla tariffa, associato all’affidamento a società private, spesso quotate in Borsa o multinazionali, è fallito. E’ necessario modificare radicalmente la prospettiva, passando dalla pianificazione dell’offerta, a quella della domanda, ponendo al centro la tutela e la gestione partecipativa dell’acqua e dei beni comuni, intesa come diritto e non come bisogno, rispettando lo spirito del referendum del 2011 e il voto di 26 milioni di italiani. Le forze politiche legate ai principi di democrazia sociale, i sindacati, le associazioni ambientaliste battano un colpo e, soprattutto, i veri riformisti.