-di ANTONIO MAGLIE-
Un’Italia delusa e senza speranza ha rinnovato il rito elettorale. Un dato accomuna tutti i protagonisti della politica: gli italiani, al netto di giri di parole, ne hanno le tasche piene, faticano a consegnare la propria delega perché avvertono l’incapacità generale a rappresentarli (e l’inaffidabilità certificata a rappresentarli), preferiscono, con il caldo dell’anticiclone Giuda (appropriato il nome: simbolo del tradimento, il tradimento delle urne, appunto) preferiscono qualche ore al mare. Dai seggi elettorali vien fuori, attraverso gli scarni numeri sull’affluenza, l’immagine di un Paese che non crede più in se stesso e nella politica; il nichilismo trionfa sulla partecipazione. E tutto questo a pochi mesi dal referendum costituzionale che aveva fatto gridare alla resurrezione dell’interesse popolare. A sei mesi di distanza, quel voto appare per quel che è sempre stato: più uno sberleffo che l’indicazione di una volontà, più un rifiuto che l’individuazione positiva di un nuovo inizio.
Possiamo consolarci dicendo che in questa fase di grande disorientamento le cose non vanno bene nemmeno all’estero: in Francia alle urne per regalare a Emmanuel Macron un plebiscito si è presentato il cinquanta per cento degli aventi diritto. In Italia, in fondo, siamo andati un po’ meglio: 60,1 per cento, oltre sei punti in meno rispetto al 2012 e oltre due rispetto allo scorso anno. Le uniche punte oltre il 70 per cento a Catanzaro, Lecce, Frosinone e Rieti. Astensione di massa a Genova dove ha votato solo il 48,38 per cento (per la vicinanza avranno avvertito il vento francese), Como (49,12), Parma (53,68), Taranto (58,52). Insomma, questo è un atto di accusa che riguarda tutti, che viene da lontano e che a queste condizioni (le ultime, avvilenti vicende politiche non stimolano certo l’ottimismo e soprattutto non migliorano la considerazione generale verso una classe politica largamente al di sotto del minimo sindacale dal punto di vista della qualità) probabilmente arriverà lontano. (e sarebbero dolori per tutti).
Per il resto si può dire che il Pd per la seconda volta (la prima fu all’epoca di Walter Veltroni segretario) ha favorito la resurrezione di Berlusconi e del centro-destra e che al pari di quanto accaduto in Olanda, in Francia e in Gran Bretagna il vento del populismo sembra essersi placato: i delusi, infatti, sembrano aver compiuto una scelta più drastica, evitare il viaggio al seggio tanto, come si dice “sono tutti uguali” anche chi si proclama diverso. Poi, chi vuole, può anche consolarsi contemplando l’orticello personale. Matteo Renzi (che, comunque, ha perso a Rignano sull’Arno pagando così la scarsa simpatia cittadina nei confronti del papà) può dire di aver contenuto i danni; Berlusconi può gonfiare il petto perché in città come Genova, Taranto e Lecce le sue insegne tornano a brillare quasi come ai tempi belli (anche se a volte con i camuffamenti delle liste civiche).
Chi può solo fare atto di contrizione è Beppe Grillo. Il Movimento 5 stelle poteva essere una grande novità e una straordinaria risorsa per il paese se solo avesse deciso di cominciare a fare politica recidendo il cordone ombelicale con il populismo europeo, se fosse uscito dalla logica del risentimento e dell’odio, se, insomma, avesse semplicemente usato il web e non si fosse, al contrario, fatto usare dalla cultura prevalente del web. Ma era complicato perché questo è il tratto distintivo di Grillo: uomo di cabaret, uomo di palcoscenico, il volto perennemente spiritato, i toni vocali invariabilmente alti, l’insulto a portata di labbra. Ha funzionato (e funziona ancora) perché tutto ruota intorno alla sua popolarità e alla conoscenza dei meccanismi del web che garantisce la Casaleggio Associati. La stessa classe dirigente “promossa” è stata funzionale alle esigenze dei due “proprietari” del partito: malleabile, obbediente, subalterna, semmai capace di sfogare le frustrazioni accumulate negli intrighi da retrobottega.
Una classe dirigente che ha mostrato tutti i suoi limiti nell’amministrazione dei territori. Virginia Raggi ha completato l’opera di desertificazione di Roma già brillantemente avviata dai suoi predecessori; Chiara Appendino si è retta perché ha ereditato, al contrario della collega romana, una città che in qualche maniera funziona ma poi è riuscita a scivolare sulla buccia di banana più banale, i 1500 feriti nella notte di follia della finale di Champions. A Genova Grillo si è fatto del male da solo confermando che una cosa sono gli spettacoli in piazza, altra cosa il confronto politico. Pizzarotti essendo stato cacciato dal Movimento 5 stelle ha deciso di fare autonomamente a Parma; eppure i dati della bassa affluenza e lo stesso risultato personale al primo turno, seppur confortante, non segnalano un oceanico consenso a suo favore, sembra quasi che i cittadini di quella città gli vogliano dare (al ballottaggio) una nuova chance ma senza particolari illusioni ed entusiasmi.
Fare politica significa prefigurare modelli civili, sociali ed economici, spiegare alle persone cosa si intende costruire sulla base del consenso ottenuto. Ma Grillo e i suoi hanno evitato di farlo. Forse non potevano perché non è nella logica di una politica che viene vissuta come scontro alto/basso (il popolo puro contro l’establishment corrotto) e non come confronto destra/sinistra (da un lato, la corsa all’arricchimento senza regole e la costruzione di una società in cui tutto è a pagamento anche ciò che dovrebbe essere garantito come diritto inalienabile; dall’altro una sistema che garantisce la promozione sociale di tutti, che assicura pari opportunità, che corregge ed elimina le disuguaglianze, che garantisce un sistema di protezione universale). Una logica, quella dello scontro alto/basso, che evita le scelte di fondo (al contrario imposte dalla dicotomia destra/sinistra), che consente di conquistare consensi secondo un rinnovato interclassismo semplicemente ripetendo slogan facili e orecchiabili, come le canzonette di Sanremo, e trasversalmente condivisibili, in grado di superare e annullare le differenze sul concetto di diritti, sulla dinamica dei doveri, sull’interpretazione del merito, sui modi dell’accumulazione e sui criteri della redistribuzione, eccetera, eccetera. In vista delle elezioni politiche Grillo e i suoi hanno semplicemente provato a fare l’occhiolino ai potenti del continente facendo dire a Di Maio “abbiamo fatto bene a non sottometterci mai alla famiglia dei partiti anti-europei, che sembra nuova ma in realtà è malata di ideologia” oppure “personalmente apprezzo le buone pratiche di governi europei come quello francese e tedesco, composti da partiti tradizionali”.
Oggettivamente, furbizie al pari del tentativo di smarcarsi dal gruppo parlamentare costruito con Farage per passare con i liberali. Perché se gli uomini al comando restano i medesimi, non si può pensare di prendere in giro gli elettori (e i partner politici) cambiando abito: oggi la grisaglia istituzionale, domani la camicia con le maniche arrotolate (semmai mimetica) da combattimento. Perché poi leggendo il Di Maio 2017 risulta difficile dimenticare il Beppe Grillo 2013 (“No all’Europa della Merkel. Noi siamo per l’Europa ma questa Europa germanizzata non mi piace”: intervista a Repubblica-Die Zeit) o quello 2014 (“l’ebetino è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel”, comizio a Torino). È evidente che i dati amministrativi non sono scolpiti nella roccia e che alle politiche tutto potrà cambiare. Ma forse è arrivato il momento per i pentastellati di decidere cosa intendono fare da grandi.