-di MARCO ZEPPIERI*-
La Fondazione che qui rappresento è dedicata a Pietro Nenni la cui storia politica e personale è stata fortemente caratterizzata da una lunga permanenza in Francia come profugo politico, in seguito all’avvento del fascismo. Infatti a causa delle drammatiche vicende storiche del primo dopoguerra e delle persecuzioni fasciste fu costretto ad espatriare nel 1926, rimanendo per molti lunghi anni lontano dall’Italia.
In virtù della sua storia e dei valori del riformismo europeo, la Fondazione Nenni è già da molti anni impegnata nell’approfondimento di queste tematiche, soprattutto per ciò che riguarda i fenomeni migratori che investono Paesi in guerra e l’attualità del tema dei richiedenti asilo che investe soprattutto l’Italia, pervade non solo l’ambito della ricerca storica ma investe aspetti sociali ed economici.
È difficile oggi parlare di ccoglienza quando l’Europa deve fare i conti con le stragi terroristiche ed un sentimento di paura che si confonde con la nostra quotidianità. Ma proprio per tale motivo è più che mai necessario affrontare questo problema perché in esso ci sono valori indispensabili per la nostra convivenza civile: solidarietà, dialogo, lotta alle diseguaglianze. Ed è doveroso innanzitutto ricordare le vittime di tanti attentati feroci non con uno sterile esercizio di retorica, ma con la capacità di agire per realizzare al tempo stesso più sicurezza e più giustizia.
La questione dell’immigrazione fa parte di quello scenario mondiale, disordinato, violento, egoista e cinico a volte, che si colloca nella esplosione della globalizzazione. La conseguenza è che quando si viaggia per profitto si è omaggiati e riveriti, quando lo si fa per sopravvivenza si è condannati ed emarginati. Le porte si chiudono, le tasche misere di chi fugge si svuotano per riempire quelle dei trafficanti di esseri umani.
Negli anni ’60 un prete coraggioso ma scomodo come don Milani ebbe a dire che si attribuiva il diritto di dividere il mondo in diseredati da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Divisione schematica forse ma non priva di valore anche per l’oggi. Don Milani concludeva che i primi erano la sua patria, gli altri gli stranieri.
Oggi questo messaggio di solidarietà appare come un’utopia. Specialmente in una stagione dell’Europa costellata di divisioni, fallimenti, nazionalismi risorgenti.
Eppure quel che avviene nel Mediterraneo dovrebbe farci riflettere sul fatto che non si può continuare nella pratica di vertici europei poveri di risultati davvero comuni quando invece occorre un grande sforzo coeso e determinato per evitare questo disperato esodo senza fine. Qual è il primo esito dell’impegno solidale verso quanti fuggono da guerre, schiavitù e miseria? Il salvataggio di vite umane. Ma proprio questa constatazione dovrebbe porre ai governi europei il vero quesito cui va data una risposta: come intervenire per evitare che questi migranti siano costretti a lasciare le loro terre e come invece poter offrire aiuti e sostegni affinché possano sperare in un futuro dignitoso nelle loro terre. In modo tale da riportare il fenomeno dell’immigrazione entro confini fisiologici e più accettabili. Quante persone, quanti giovani, quanti bambini al di là del Mediterraneo non hanno mai conosciuto un giorno di pace, di sereno vivere mentre osservava sui media il benessere dei popoli del Vecchio continente. Questa stridente contraddizione ci deve spingere a restituire all’Europa in primo luogo un ruolo protagonista sulla scena internazionale e non di risulta, uscendo da una latitanza dovuta soprattutto alle lentezze, alle incongruenze burocratiche, ai timori che spengono anche le migliori intenzioni.
Ridurre il flusso degli immigrati vuol anche dire ridurre i rischi delle infiltrazioni criminali e terroristiche. Ma sarebbe un errore confondere i due fenomeni. Farlo non vuol dire acquisire maggiore sicurezza. Certo, contro gli atti terroristici sempre più brutali ed imprevedibili occorre la più severa fermezza, ma anche un livello di intelligence comune che oggi si fatica a raggiungere e che invece serve come serve un coordinamento più efficace degli sforzi per dare accoglienza. Non basta più segnalare le notizie, come abbiamo visto, c’è bisogno di maggiore lavoro unitario. Evitando semplificazioni pericolose: molti dei terroristi che hanno insanguinato le città europee erano in realtà ormai radicati da tempo in quelle società. Non venivano dai barconi ma semmai dai ghetti metropolitani. Ed il termine accoglienza è l’opposto del termine ghetto.
Ecco perché anche in questo caso si scontano ritardi nella politica europea. È ormai giunto il momento di realizzare una comune politica di integrazione tenendo conto di tutte le esperienza fatte. Andare ognuno per conto proprio vuol dire solo creare più diseguaglianze, più disagio sociale, più terreno di coltura per il fanatismo e le pratiche criminali. Tutto invece avviene nella confusione: i rimpatri, le destinazioni, gli abbandoni per mesi in località che non possono offrire futuro. Mentre la criminalità impone il suo business e crea nuove barriere contro le soluzioni dei problemi che riguardano i destini di queste persone che fuggono dai loro paesi ma che certo non lo fanno per finire nelle mani di una delinquenza affaristica e cinica.
E questa considerazione richiama anche l’esigenza di capire che le frontiere dell’Europa non sono italiane, maltesi, greche o spagnole, ma sono europee e come tali vanno trattate. A noi fa piacere che si elogi l’impegno generoso delle popolazioni siciliane o calabresi nei confronti degli immigrati, ma questo non basta, diventa pura ipocrisia se è un modo per lavarsene le mani. È necessario invece che l’accoglienza da un lato ed una prospettiva di crescita di quelle zone nella sicurezza e nel lavoro siano due obiettivi che vanno affrontati insieme per non aggiungere emarginazione ad emarginazione
L’Europa è nata sociale. Oggi si muove con impaccio, è succube di una finanziarizzazione spietata, di troppe instabilità, di classi dirigenti che fanno del potere uno scudo contro le sfide di un futuro che non sanno come affrontare. Invece ci vuole coraggio, bisogna tornare a volare alto.
Operare come si fa in questa occasione, mobilitando risorse etiche e culturali, vuol dire essere europei nel senso più alto. Università, Fondazioni (realtà come nel nostro caso che ci vede insieme a ragionare su queste decisive questioni, tutti impegnati nella stessa direzione), costituiscono un polo di riferimento fondamentale per affrontare il problema della immigrazione senza rinunciare alla nostra tradizione di civiltà aperta e solidale.
Bisogna sempre meglio decifrare questo universo di problemi che tocca così da vicino la nostra vita. Per questo motivo desideriamo ringraziare il Prof. Mario Mignone, direttore del Center Italian studies della Stony Brook University di New York, con la quale la Fondazione Nenni lo scorso mese di maggio ha stipulato un importante accordo di collaborazione per la realizzazione di attività di ricerca, borse di studio, convegni, seminari e pubblicazioni su temi che riguardano principalmente il mondo del lavoro e del sindacato, con evidenza per quel che riguarda le migrazioni, i movimenti anti-establishment ed il fenomeno dei nazionalpupulismi.
Non dimentichiamo che siamo stati terra di emigrazione come risposta ad ingiustizie sociali, a forme di miseria intollerabili, ma senza perdere identità e legame forte con la propria terra. Ci sostiene in questa affermazione la testimonianza di vita di figure come Rocco Scotellaro e CarloLevi che hanno ben rappresentato con la loro arte i drammi ma anche le speranze e la voglia di riscatto dei lavoratori meridionali. Ed una rappresentazione di tutto ciò c’è nel volume, realizzato dalla Stony Brook University, sulla cultura del sud, in particolare modo della Lucania che è stato presentato poche settimana fa alla Camera dei Deputati.
Molto dipende dalla società civile. In questi giorni abbiamo ricordato Falcone e Borsellino uccisi perché avevano capito il fenomeno moderno ed insidioso delle mafie come sintesi di vecchi patriarchi e di nuovi colletti bianchi malavitosi infiltrati nell’economia legale. Vecchi patriarchi che devono scontare la loro pena fino in fondo sia pure con le garanzie che lo Stato offre. Ma fino in fondo per rispetto alle loro vittime se non altro. E per non tornare a fare i burattinai. Bene quei due grandi e coraggiosi magistrati sono stati lasciati soli. Questo non deve avvenire per coloro che si battono onestamente e limpidamente per coltivare con determinazione obiettivi umanitari. Per evitare che il territorio sfugga alle regole della solidarietà e della legalità anche per quel che riguarda il problema della immigrazione.
“Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre…” ha sostenuto di recente Papa Francesco che ha ricordato come i padri fondatori dell’Europa si sono battuti per costruire ponti ed abbattere muri. Per evitare il risorgere di razzismi e per promuovere la dignità della persona. In questo disegno era centrale il valore del lavoro. E lo è ancora oggi più che mai se vogliamo che si rafforzi davvero un’Europa giovane. Per averla dobbiamo sapere che c’è anche un grande dovere di accoglienza da esercitare nei confronti dei nostri giovani: strapparli dalla precarietà, offrire loro politiche del lavoro ed opportunità di impiego più forti e stabili della sfida che l’evoluzione tecnologica ed i cambiamenti del sapere ci propone senza sconti per nessuno. Il lavoro è anche lotta alle diseguaglianze, il lavoro è anche riscoperta di essere comunità che scommette su un futuro migliore. Ma questo vuol dire avere le carte in regola, lo spirito giusto per aiutare e comprendere coloro che sbarcano sulle nostre coste per vedersi riconoscere il diritto ad essere persone, ad aver un futuro. Ecco perché bisogna rifondare il nostro essere Europa. Risse, mediocrità, assenza di progetti vanno superati con un salto di qualità della politica europea. In questo modo avremo meno timori per quel che ci aspetta ed avremo più motivazioni per ritrovare un autentico spirito di fraternità che non è arrendevolezza ma assunzione di responsabilità.
In questi giorni si è detto che non poche risorse del Pil vanno per le politiche di immigrazione. Per la gestione delle frontiere e degli aiuti. Usiamole di più per permettere ai migranti di essere protagonisti dello sviluppo loro e delle loro comunità là dove vivono. Senza che cadano in mano a gruppi di potere locali o ai fondamentalismi. Ma senza un’Europa che si comporta da Europa, che si sente una vera sola comunità questo non è possibile. Ecco perché il nodo della questione immigrazione non sta nella dissoluzione della costruzione europea ma nel rilancio di essa. Una strada in salita, certo, ma una grande prospettiva degna delle nostri radici, delle nostre tradizioni, dei nostri valori.
* Intervento a nome della Fondazione Pietro Nenni in occasione della conferenza internazionale “La sfida migratoria in Europa e negli Usa: politiche e modelli d’accoglienza a confronto”, consorzio universitario di Agrigento