L’ipocrita guerra al terrore di Donald Trump

 

-di ANTONIO MAGLIE-

L’irresponsabile politica estera (in particolare mediorientale) del nuovo presidente americano, Donald Trump, sta cominciando, in questi giorni carichi di lutti, a produrre i suoi frutti avvelenati. Ironia della sorte (ma non tanto): avvelenati anche per lui, per il vecchio intrattenitore televisivo, purtroppo per tutti noi approdato alla Casa Bianca. E così mentre da un lato lui insultava il sindaco di Londra, Sadiq Khan, il suo potente alleato, l’Arabia Saudita con il contorno di Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto chiudevano le frontiere con il Qatar colpevole di non condividere la politica di chiusura nei confronti dell’Iran sostenuta da The Donald nel suo ultimo viaggio da quelle parti.

Il presidente americano non ama la politica della civile convivenza tra persone diverse per scelte politiche, culturali e religiose praticata dal primo cittadino di Londra che, per giunta, ai suoi occhi ha anche due peccati originali: ha radici pakistane ed è musulmano. Non avendo una adeguata preparazione politica, fatica a comprendere che la Gran Bretagna (al pari della Francia) si trascina sulle spalle il fardello di una politica coloniale che comporta come eredità la presenza di numerosi “figli” di quelle colonie e di figli di quei figli. Le ragioni del confronto hanno radici non solo culturali ma anche pratiche. Lui, però, ha bisogno di rilanciare, in chiave interna, le sue ossessioni, cioè il famoso bando contro i musulmani, genericamente e a priori considerati terroristi.

Un bando singolare (e anti-costituzionale) perché da un lato non tiene conto che gli autori degli attentati in Occidente e in Europa in particolare, non vengono dall’estero: non li importiamo, li abbiamo già in casa; dall’altro, esclude dalla lista l’Arabia Saudita e l’Egitto cioè le due nazioni che offrirono manovalanza (e non solo) ai commando del primo grande attentato in terra americana, cioè quello dell’11 settembre.

In una intervista a “la Repubblica”, Pieter Van Ostaeyen, professore belga tra i massimi studiosi di estremismo islamico, facendo riferimento alle dichiarazioni del premier britannico, Theresa May, sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda di Trump a proposito di “chiusure”, ha spiegato: “Se davvero si vuole dire basta alla tolleranza dell’estremismo islamico, allora si dovrebbe fare lo stesso con l’Arabia Saudita, che diffonde in tutto il mondo l’Ideologia wahabita”.

In sostanza, diffonde l’interpretazione più radicale (e oscurantista) dell’Islam. I modi sono noti: finanziando (al pari del Qatar) la costruzione di moschee e gestendone la linea teologica attraverso la formazione degli imam che lì vanno a predicare (se ne è parlato ampiamente a proposito del Belgio, di Molembeek e del monopolio saudita nella gestione e nel controllo delle “anime” musulmane avviato agli inizi degli anni Sessanta con l’insediamento della prima grande moschea in quel Paese).

Però, con l’Arabia Saudita Trump fa buoni affari: l’ultimo, una fornitura d’armi da centodieci miliardi di dollari e l’abbraccio politico con tanto di “benedizione”. Poi, però, può accadere che sentendosi unti dal signore (cioè da Trump, l’uomo che li arma) i sauditi insieme ad altri tre alleati dell’area (ognuno con le sue personali ragioni che veramente poco hanno a che vedere con la pacificazione e la stabilizzazione del Medio Oriente), per imporre la propria leadership, chiudano le frontiere con il Qatar, cioè con lo Stato che ospita la più grande base americana dell’area e che, come ricorderanno i meno giovani, fu il quartier generale di “desert storm”, la prima guerra del golfo scatenata all’alba degli anni Novanta da Bush-padre.

Questo incrocio di tensioni ovviamente si trasformerà in carburante per l’estremismo, per un terrorismo che, come dice la filosofa Donatella Di Cesare, ha scatenato non la terza guerra mondiale (come affermò Papa Francesco), ma la prima “guerra globale”. E citando Jean Baudrillard, ha spiegato come questo terrore in realtà non sia diverso da quello delle delle Brigate Rosse o della Raf: è fatto di gesti simbolici (mai conclusivi) con i quali si punta a mettere in discussione equilibri politici (globali), contestati e detestati. Ecco perché alimentando rabbie e contrapposizioni, le politiche di Trump rischiano di avere conseguenze devastanti. Ecco perché non si può che essere dalla parte di Sadiq Khan: la ragione resta l’arma più potente. Un’arma non prevista negli arsenali da centodieci miliardi che Trump commercializza in giro per il mondo da buon piazzista.

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