-EDOARDO CRISAFULLI-
È tornata alla ribalta la vexata quaestio del consenso al fascismo. Emilio Gentile, massimo esperto italiano del fascismo, scende in campo stroncando l’ultima opera dello storico britannico Christopher Duggan, Il popolo del Duce. Storia emotiva dell’Italia fascista (“Il Duce, che emozione!, Il Sole 24 ore, 4-5-maggio 2014). Duggan sarebbe colpevole di aver riproposto le tesi revisionistiche di De Felice, “il cui subdolo scopo era riabilitare il fascismo, sostenendo che il regime ebbe un consenso popolare”. La polemica anti-defeliciana m’é sempre parsa insensata: riconoscere che Mussolini – in certi periodi – fu popolare non significa riabilitarlo. Nessuno storico onesto può assolverlo dai suoi crimini, che furono ancor più gravi fuori d’Italia (sulle atrocità del colonialismo fascista si legga l’ottimo Genocidio in Libia di Eric Salerno).
Se il rilievo metodologico di Gentile è azzeccato (troppo scarse le fonti di Duggan, che rievoca i sentimenti di milioni di italiani basandosi su una settantina di diari e una trentina di lettere), l’accanimento storiografico è incomprensibile. Lascia perplessi la perentorietà di questo giudizio politico: “Qualunque fosse l’atteggiamento dei capi dei regimi totalitari rispetto al consenso della popolazione su cui dominavano è un fatto storico indubitabile che nessuno di loro ha mai fondato il suo potere sul consenso della gente comune, comunque motivato, sollecitato, fabbricato e organizzato, ma solo e sempre sul monopolio del partito unico, sulla forza armata, sulla prevenzione ed espressione poliziesca, e sulla irregimentazione della popolazione, fosse o no consenziente.” È onesto intellettualmente presentare come “un fatto storico indubitabile” la tesi, discutibilissima, secondo cui il regime fascista si reggeva “solo e sempre” sulla forza bruta? Se non esistono i documenti che provano la popolarità del Duce, quali sono le fonti a cui si appella il nostro severo recensore per sostenere la tesi opposta, e cioè che il fascismo era inviso a gran parte degli italiani? Forse Gentile reagisce allo stigma che gli intellettuali azionisti ci hanno appiccato addosso: il fascismo, per loro, è lo specchio dei difetti atavici nazionali. Se si argomenta che una moltitudine di italiani, dopo aver subito angherie e soprusi per vent’anni, alla prima occasione insorsero armi in pugno contro il Duce, ecco che l’onore della Patria è salvo! Siccome il gene culturale dell’apatia o del servilismo non esiste, sarebbe più utile gettare alle ortiche il moralismo e la storiografia giudiziaria.
Gentile è uno studioso serissimo: sostiene – giustamente – che il fascismo era totalitario (in disaccordo con Hannah Arendt, la quale attribuiva questa qualifica solo al nazismo e al comunismo). Ma sul consenso al Duce prende un bel granchio. Che il fascismo usasse il manganello, l’olio di ricino, il carcere duro e l’omicidio politico, lo sappiamo bene – vergognose le parole di Berlusconi sugli antifascisti inviati al confino “in villeggiatura”. Mussolini, però, non rimase in sella per vent’anni solo con la politica del pugno duro. Il consenso di cui godeva sarà stato effimero e altalenante, ma c’era. Non occorrono tonnellate di carte d’archivio per provarlo: basta il ricorso alla logica e qualche buona lettura. È impensabile che un dittatore ‘di lungo corso’ possa prescindere da una qualche forma di consenso, comunque indotto o fabbricato. Gramsci questo l’aveva capito benissimo. E Foucault ci ha insegnato che il potere politico, democratico o dittatoriale, è polimorfo: non può esaurirsi nella mera repressione violenta; esibisce anche una capacità seduttiva. Perché il Duce scese a compromessi con la Chiesa cattolica, rivale dello Stato totalitario? I Patti lateranensi – un capolavoro politico-diplomatico – miravano a ottenere la benevolenza delle masse cattoliche. Certo, la nazionalizzazione fascista delle masse fallì (gli italiani combatterono malissimo, e non certo per vigliaccheria, nelle guerre fasciste). Ma ciò non cambia di un ette i termini della questione: anche i dittatori hanno bisogno di essere popolari. Le Memorie del Terzo Reich di Albert Speer, l’architetto di Hitler e suo amico, nonché efficientissimo Ministro degli armamenti, testimone di cui gli Alleati si fidarono quasi ciecamente, dipingono un Hitler terrorizzato dallo spettro dell’impopolarità. Hitler, un criminale di prim’ordine, alternò con grande astuzia il bastone e la carota: in tempo di pace, attuò politiche di stampo socialista (a esclusivo beneficio dei tedeschi “ariani”, s’intende) e durante la guerra volle che la produzione di beni voluttuari per la popolazione civile continuasse. Solo a guerra ormai persa chiese ‘lagrime e sangue’ al popolo tedesco: dichiarò la Totale Krieg, la mobilitazione totale, solo nel ’43, dopo il disastro di Stalingrado. E infatti la produzione bellica tedesca raggiunse l’apice solo l’anno seguente. Churchill (e così più tardi Roosevelt) fece il contrario: dopo un anno dall’entrata in guerra, le fabbriche britanniche sfornavano armi a pieno ritmo.
La questione del consenso al fascismo è politica: i Gendarmi della memoria, come li definisce Pansa, si sono sempre opposti con le unghie e con i denti a qualunque interpretazione che mettesse in discussione la vulgata antifascista e resistenziale promossa dal PCI: il Duce era al soldo di una cricca di capitalisti e reazionari; non v’era nulla di sinistra nella sua visione e prassi politica; i fascisti autentici si contavano sulle dita di una mano; il nazi-fascismo è il Male Assoluto, mentre il comunismo sovietico è il Paradiso terrestre (per dirla con Berlinguer: nell’URSS si respirava ‘un clima morale superiore’ rispetto alle decadenti e corrotte società borghesi); l’imperialismo è connaturato agli stati capitalistici, anche quelli democratici (evidentemente Stalin si spartì la Polonia con Hitler per amore della classe operaia polacca…). Tale vulgata – un coacervo di falsi storici – è il perno su cui il PCI ha fatto leva per affermare un’asfissiante egemonia culturale. I vuoti di memoria facilitarono una caterva di conversioni dopo il ‘43: e così il PCI accolse nelle proprie fila gli intellettuali compromessi col fascismo, i quali, nel dopoguerra, saranno i filo-comunisti più agguerriti – si legga l’illuminante I redenti di Mirella Serri. (continua)