UNA PRIMA RISPOSTA ALLA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

Nel periodo in cui si era tutti incarcerati, Giorgio Agamben – pensatore da me stimatissimo – ha posto una domanda che qui riproduco: “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?”. Ci ho pensato moltissimo e, credo, di essere giunto ad una parziale conclusione che vorrei qui condividere.

Dieci anni fa, in un convengo di Semiotica svoltosi a Bologna i cui atti sono raccolti nel volume a cura di Federico Montanari Politica 2.0, Umberto Eco sosteneva che il giornalismo attuale aveva due tendenze: costruire le notizie, invece di scoprirle, attraverso un regesto di casi simili l’uno all’altro ossessivamente narrati giorno per giorno; praticare la censura di ciò che realmente conta per eccesso di rumore (in parole semplici: assordare un fatto importante con un altro più eclatante ma non essenziale ai fini della cronaca).

Ferma restando l’esattezza di questa tesi che mi sento, da addetto ai lavori, di condividere, ultimamente mi pare si stia aggiungendo alle due già elencate una terza tendenza. Ovvero: profetizzare un avvenimento che, verosimilmente, accadrà in un futuro prossimo.

Chi ha letto la Poetica di Aristotele, sa che il concetto di verosimiglianza è simile ma non uguale alla realtà. Un evento rappresentato sulle tavole di un palcoscenico (o ripreso in televisione) nella vita quotidiana può accadere o può non accadere. Si può dire che la verosimiglianza è la realtà in potenza, cioè nell’atto stesso di verificarsi o di non verificarsi.

Nella comunicazione giornalistica cui assistiamo tutti i giorni, specialmente quella legata al futuro che ci attende nel più ampio contesto dell’epidemia da Sars-CoV-2, si assiste non più ad una spettacolarizzazione della realtà, bensì ad una sua rappresentazione verosimile. E quindi ecco farsi sempre più spazio, fra le colonne dei quotidiani o nei servizi di approfondimento dei programmi di inchiesta giornalistica, scenari apocalittici di nuove chiusure, restrizioni più severe, camere di terapia intensiva di nuovo congestionate, migliaia di morti ai quali presumibilmente – come nella scorsa Primavera – non verranno celebrati i riti funebri come di diritto.

A questo scenario apocalittico verosimile, come risponde chi di dovere? In prima istanza smentendo ogni previsione eccessivamente pessimistica. A patto, beninteso, che la situazione rimanga sotto controllo, che la curva dei contagi non torni ad aumentare, che si rispettino determinate regole (la mascherina sul volto, il distanziamento sociale e non fisico o di sicurezza interpersonale, la costante pulizia delle mani). Qualora, però, la situazione dovesse sventuratamente aggravarsi, la conseguenza sarà quella di nuovi divieti per meglio contrastare la diffusione del Sars-CoV-2. Il risultato finale è quello di vedere realizzato, punto per punto, uno scenario apocalittico precedentemente narrato dai media e a cui le persone già avevano iniziato ad abituarsi, seppur solo idealmente.

Tornando, quindi, alla domanda posta da Agamben – “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” – una prima risposta, credo, si possa trovare in questa nuova tendenza del giornalismo: tracciare scenari verosimili per far sì che, mentalmente, le persone li percepiscano come normali e quindi non stupirsi né indignarsi quando essi si realizzeranno. In tal senso è come se ci si trovasse oltre la società dello spettacolo teorizzata da Guy Debord, nella quale i media profetizzano futuri rapporti sociali fra individui ed eventi ma spettacolarizzandoli in anticipo rispetto ai tempi. E in tale situazione i più sprovveduti, coloro cioè che non dubitano né si interrogano sull’eccezionalità sociale del momento (non più sanitaria, visto che medici e scienziati sanno bene, ora, come comportarsi per contrastare le infezioni anche più gravi da Sars-CoV-2), ritengono che tutto quello che sta accadendo sia normale e che l’unica cosa da fare sia attendere che passi la tempesta per tornare a vivere.

Per chi nutre questa illusione, vorrei consigliare la lettura di un bellissimo racconto di Dino Buzzati, L’uomo che volle guarire. Un principe, divenuto lebbroso, entra nel lazzaretto. Dal primo giorno, egli non ha altro desiderio che di guarire; e mette in campo ogni possibile sforzo pur di riuscire nell’intento: “Io ho bisogno di guarire, io sono ricco… Laggiù ci sono i miei cavalli che mi aspettano, e i miei cani, e i miei cacciatori, e anche le tenere schiave adolescenti mi aspettano che torni… Io ho bisogno di guarire”. Giunto, finalmente, il giorno della guarigione, dopo scrupolosa visita medica che lo certifica come sano, il principe può uscire dal lazzaretto. Ma un’orrida visione gli si offre alla vista: “Al posto delle torri e delle cupole [del suo palazzo], giaceva adesso un sordido groviglio di catapecchie polverose, grondanti di sterco e di miseria, e invece degli stendardi, sopra i tetti, nugoli caliginosi di tafani come un infetto polverone”.

Meglio dei giornali, la letteratura può profetizzare con maggior precisione un futuro che ci riguarda da vicino. Ma qui sta la differenza: essa non lo spettacolarizza per farlo supinamente accettare alle persone.

pierlu83

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