-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Se la lontananza, spesso, mette fine ad amicizie durate decenni, per Montale e Macchia questo fattore non incrinò il loro rapporto. Il 6 marzo 1953, il poeta spedì una lettera all’amico saggista nel quale affida importanti riflessioni sulla sua attività:
«Carissimo Macchia,
ho lasciato passare più di un mese senza risponderti! ed ora ti scrivo solo per dirti che passerà un altro mese perché vado a Parigi e là non potrò certo curare mon courrier. Io non vengo mai a Roma ma so che il cenacolo dell’Immagine s’è sciolto, com’era prima o poi inevitabile. So che tagliasti la corda per primo e puoi figurarti quanto t’ho capito! (Ne parleremo un giorno a voce). Le mie poesie sono ora 55; quando torno le faccio copiare e te le mando; vedremo poi il da farsi; poiché quella collana non porta più prefazioni bisognerebbe aggirare la difficoltà, ma si può trovare il modo e ti dirò come. Non so se ti abbia scritto Giorgio Soavi (presso COMUNITÀ, via Bigli 11, Milano) che sta occupandosi di un certo numero della Fiera Letteraria in parte a me dedicato. È una faccenda di cui mi vergogno, non organizzata da me, ma pare che molti abbiano già avuto la loro pagina. Si tratterebbe di mandare a Soavi il pezzo da te scritto per l’Immagine, in modo che possa stralciarne qualche riga. Io sono disamorato, non proprio della poesia in sé ma di quest’epoca di risciacquature di cui in parte mi si fa responsabile. Il piccolo elzeviro che ti accludo ti farà meglio capire il mio stato d’animo; non per quel che dice ma per quel che lascia intendere. I miei articoli di letteratura francese sono scritti da uno che non ha libri sotto mano, e non ha tempo di leggere quelli che ha; improvvisazioni scritte a macchina qui in redazione in mezzo al trambusto. In genere sono piaciute e un grande essayst italiano, di cui non ti faccio il nome – si trattava di Emilio Cecchi, con molte probabilità –, dice che io valgo assai più come critico che come poeta. Credo che sia in errore, per varie ragioni, perché in me queste barriere non esistono e perché la mia poesia è stata una delle meno volute, pensate ed elaborate del nostro tempo. Parte, s’intende, da un criticismo “préalable”, che era nell’aria, che era di tutti, lo stesso che tu potresti trovare in artisti, come Modigliani e Soutine, che nessuno scambia più per cerebrali. Qui al giornale ancora confusione, malgrado la buona volontà del nuovo boss. Ti ringrazio del tuo ricordo, caro Macchia, e ti prego di credere che penso spesso a te e considero la tua amicizia e la tua stima come un prezioso dono. Mi rifarò vivo al mio ritorno da Parigi. Credimi il tuo sempre
affmo
Eugenio Montale».
Il saggio cui si riferisce Montale è del 1947, ed è un’analisi di Macchia sulla lirica Voce giunta con le folaghe,che riprende e approfondisce quanto già detto nel saggio sugli aspetti della poesia italiana contemporanea.
In questo scritto, Macchia riportava anche stralci di un’intervista di Montale nella quale affermava che Leopardi avrebbe riso molto nel leggere ciò che avevano scritto i suoi commentatori ed esegeti. La poesia non nasce dalla fredda e calcolante ragione, ma affonda le sue radici in una zona d’ombra nella quale neanche il poeta riesce a far luce, e tanto meno può farlo il critico. V’è una giusta misura fra spiegare tutto e non spiegare nulla, e per Montale il critico deve sostare in questa via di mezzo, e con le sue analisi far luce e subito dopo gettare un velo d’ombra su quanto ha analizzato, rispettando così quel quidquid di oscurità e mistero della creazione artistica.
Lo stesso Macchia non era distante da questa posizione. Lavorando su Baudelaire, e grazie all’esempio di maestri come De Lollis e Trompeo, egli apprese ben presto che la critica è sì lavoro di precisione, ma anche attività creativa e non deve rinunciare a divertire i suoi lettori, oltre che ad informali esaustivamente sull’oggetto di studio. Chi tutto spiega non coltiva in sé né odi né amori e «se un bel quadro può far pensare alla natura vista da un artista, la critica diviene quel quadro visto da uno spirito intelligente e sensibile». Ogni interpretazione trova la sua tecnica, sempre diversa, in ciò di cui parla, all’interno del suo oggetto di studio. La vera critica, quindi, non spiega, ma esplora, avvicinandosi così ad una forma di narrazione e trasformando, in questo modo, il saggio in un racconto.
Chissà cosa provò Macchia quando lesse la recensione di Montale a Il paradiso della ragione o alla Letteratura francese. Dal tramonto del Medioevo al Classicismo[. Sul secondo elzeviro non si hanno ancora testimonianze in merito, mentre nel primo caso Macchia definì quell’articolo uno di quei rari piaceri puri che allietano la vita di un uomo.
In entrambi gli articoli, applicando quanto pensato dallo stesso Macchia sul metodo nella critica e da entrambi condiviso, Montale si comporta come un esploratore: a lettura, si ha la sensazione che egli, durante il viaggio, abbia annotato ogni minimo dettaglio dei luoghi che ha visitato, e vorrebbe stendere centinaia e centinaia di pagine per rievocare quel mondo vissuto attraverso lo sguardo. Ma non può farlo; e allora sceglie un solo aspetto, che ci presenta come il filo di Arianna che aiuterà il lettore a orientarsi nel labirinto di pagine: la distruzione dello stereotipo della letteratura francese come di una letteratura amante dell’ordine, della precisione e del gusto per il bello (nel caso del Paradiso della ragione); il ritratto di una cultura letteraria i cui aspetti significativi emergono più nelle sue divergenze interne che nelle affinità e similarità (nel caso della Letteratura francese).
A conclusione di elzeviro, in entrambi i casi, Montale confessa di aver scelto un tema fra i tanti possibili, lasciando così al lettore la possibilità di intraprendere per proprio conto lo stesso viaggio, senza far venir meno il principio di piacere che dovrebbe guidare, silenziosamente, la lettura.
Il Primo gennaio del 1975, Montale inviò a Macchia un malinconico biglietto:
«Caro Giovanni,
molto affettuosamente ricambio gli auguri a te e a Carla. Spero di poterti rivedere almeno una volta. Le temps stringe, purtroppo; e anche stinge. Un caro abbraccio dal tuo
Montale».
Sei anni dopo, il poeta Premio Nobel chinò il capo sul petto. Non sappiamo se si rividero.
L’anno successivo la morte dell’amico, Macchia scrisse un articolo sulla Bufera e altro: quel libro per il quale Montale attese invano una prefazione. Non volle colmare quel vuoto, ma dare solo qualche indicazione e avanzare delle proposte.
«Dietro il ritmo apparentemente tranquillo delle poesie che durante un lungo arco di tempo, Montale compose, pubblicò e ordinò in vista di un ipotetico insieme, s’indovina una tensione segreta, la tensione che vorrebbe condurre poesie isolate l’una dall’altra, scritte in momenti diversi, in stati d’animo differenti, a farsi libro, a divenire libro. S’indovina come in chi vive in uno stato di necessità qual è appunto lo stato che “non ha libera scelta”, la segreta ambizione che quegli elementi frammentari e discontinui, luce di una giornata, formino una lunga storia piena di futuro». In questo tentativo, in questo sforzo a conferire alla vita un più profondo respiro di un fuggevole istante, «nessun misticismo placa Montale. Egli è come diviso su due fronti. In uno è il quadro della tempesta, nell’altro non c’è ancora Dio e non c’è nessuna Beatrice, ma soltanto una donna sofferente e infelice il cui destino il poeta contempla con un trasporto violento e con raccapriccio»[. Questa donna è Clizia, dal volto sfuggente e di difficile individuazione, che si erge su un mondo dilaniato da una guerra cosmica e terrestre senza scopo e senza ragione, e che ella ricorda, e contro cui si pone come se vivesse in una situazione di conflitto.
Ma Montale non è un poeta del trascendere. Per Macchia, egli crede al contingentismo e aborre da qualsiasi forma di spiritualismo. Le sue azioni sono mosse da un auto da fé, da una fede che non gli dà alcuna prospettiva per il futuro. Vive, in Montale, questa doppia presenza di spirituale e carnale.
In quell’articolo, probabilmente Macchia tentò di ampliare quell’istante su cui i poeti di inizio Novecento fecero poggiare l’esistenza umana: provò a cementificare la terra cedevole della vita da loro cantata. Forse era un modo di richiamare a sé il suo caro amico.
Ma si accorse che così facendo, non
avrebbe reso onore alla richiesta che più di trent’anni prima gli rivolse
Montale. E allora, con un gesto, ridiede a quella poesia, e all’amico perenne,
il suo impercettibile istante, la sua sabbia impotente alla forza del vento, la
sua terra cedevole.