Macchia e Montale: un’amicizia perenne (I parte)

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Nel 1949, Giovanni Macchia era già un saggista e critico affermato. Laureatosi in letteratura francese, relatore Pietro Paolo Trompeo e correlatore Mario Praz, con una tesi su Baudelaire critico che pubblicò nel Trentanove dopo anni di riletture e correzioni, andò in Francia per frequentare un corso di specializzazione, e qui strinse amicizia con Gianfranco Contini. Tornato in Italia, insegnò letteratura francese all’Università di Pisa e nel Quarantanove fu chiamato a ricoprire la stessa cattedra alla Facoltà di Magistero dell’Università di Roma.

Nel Novembre di quell’anno, chiusa in una busta grigia del «Nuovo Corriere della Sera», il giovane francesista ricevette questa lettera:

            «Caro Macchia,

                                    ti mando l’indice provvisorio del mio terzo e ultimo libro di poesie che vorrei uscisse entro il 1950. Ho segnato con punti sospensivi le serie tutt’ora aperte (la 4° e la 5°) che dovranno arricchirsi; ma è possibile che anche le altre serie si riaprano per comprendere qualcos’altro. Tu dovresti dirmi quali poesie ti mancano, e te le manderò (tenendo presente che le quattro segnate in fondo, non però l’ultimissima, escono ora su Botteghe Oscure). Sul titolo (Romanzo) ti prego di mantenere la più assoluta discrezione, altrimenti sarà rubato da qualche giovane di belle speranze. Da te vorrei una prefazione storica, di quelle che restano per lunghi anni. Hai sei mesi, forse un anno per prepararla. In parte potrai rifarti a quanto hai già scritto, magari utilizzare lo stesso testo; in ultimo dovrai centrare sul libro d’oggi. Ciò, s’intende, nel caso che il libro ti piaccia e tu non lo senta come una passo indietro; in caso diverso rinunzio alla prefazione e restiamo amici lo stesso, come prima e più di prima. Non è che io voglia lodi; vorrei invece da te un tentativo di comprensione storica, di inserzione nel mio tempo, nei limiti in cui è possibile farlo. Il saggio dovrebbe essere breve; sei o sette cartelle dattiloscritte, poco più di un comune elzeviro. Dimmi se ritieni, a occhio e croce, che la cosa sia possibile. Ripeto che hai molto tempo per pensarci su. Un abbraccio affettuoso dal tuo

                                                                                                                                Eugenio Montale».

Nell’apprendere che un grande poeta, già grande critico, lo riteneva l’unico in grado di scrivere un saggio di comprensione storica e contestualizzazione nel suo tempo, Macchia provò un piacere indicibile. Il pensiero e l’idea di questa prefazione lo accompagnò per anni. Tuttavia, La Bufera e altro apparve nel Cinquanta, come previsto da Montale, ma senza il saggio introduttivo di Macchia. Unica consolazione di entrambi, fu che questa raccolta venne pubblicata senza prefazioni.

Prima degli anni Cinquanta, i rapporti fra Macchia e Montale erano cordiali, basati sulla reciproca simpatia e la reciproca stima per il lavoro dell’uno e dell’altro, ma comunque rari. Col tempo, la loro frequentazione divenne più assidua, e i due si incontravano spessissimo a Firenze, a Roma, a Milano, e a Venezia durante l’estate, quando Montale era critico musicale del «Corriere d’informazione».

Entrambi, seppure in luoghi diversi e in epoche differenti, vissero una giovinezza con molte affinità. Anche se non ebbe l’opportunità di andare all’università e dedicarsi alla letteratura perché da subito indirizzato a studi tecnici, Montale ebbe una formazione da autodidatta: girovagava fra le biblioteche pubbliche di Genova, dove leggeva con divorante passione; amava soprattutto i romanzi naturalisti, che invece di baloccarsi su discussioni sopra i massimi sistemi e narrare di mondi paralleli, ritraevano la realtà per ciò che era, e in questa visione, in questa cruda analisi, si manifestava l’idea dell’autore perfettamente mascherato dietro uno sguardo vigile e onnicomprensivo che tutto osservava e annotava. Montale leggeva «apparentemente con distacco, quasi dovesse distillare qualche passo o una poesia, lo stesso movimento delle mani faceva pensare piuttosto a un sacerdote, che tiene in mano qualcosa di prezioso e nello stesso tempo è colto da dubbi, da grande perplessità. L’aria era annoiata o infastidita, ma il giudizio, quando lo dava, era sempre il più pertinente ed esatto».

Per Macchia la lettura era sinonimo di libertà, di fuga dalle costrizioni che gli studi scolastici imponevano. A scuola andava male, eppure rispetto ai suoi compagni di classe già possedeva una cultura notevole e diversa, dovuta al fatto che la sua formazione, quella che per lui contò maggiormente, anche degli studi universitari, seppure in modo diverso, fu dovuta alla lettura dei classici. Per il giovane Macchia, la lettura era anche un modo di arricchire la realtà di immagini che non gli appartenevano: i libri che i suoi amici ignoravano, rendevano le sue giornate meno malinconiche. Dal balcone della casa romana dove visse con i genitori, si vedevano le torri di Villa Medici, ed egli, chino sulle pagine di Don Chisciotte, immaginava che dentro quei giardini, che non gli si concedevano alla vista, avvenissero le stesse battaglie e avventure che Cervantes narrò nel suo intramontabile libro.

Se per Montale fu importante assistere alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna – l’unica della famiglia che ebbe la possibilità di compiere gli studi universitari – dalla quale mutuò una naturale disposizione alla riflessione religiosa e spirituale, per Macchia la madre fu una figura fondamentale. Da lei apprese che la cultura non sempre passa attraverso la frequentazione delle grandi opere d’arte, ma spesso percorre vie diverse e inaspettate, e quanto si apprende al di fuori del canone culturale comunemente accettato e condiviso, può servire poiché si tratta, comunque, di ammobiliare la mente con criterio e utilizzare, qualora ce ne fosse la necessità, quanto appreso in altri tempi e in ambiti diversi.

            Per Macchia la poesia italiana dei primi trent’anni del Novecento è una poesia di chiara opposizione rispetto ai maestri precedenti – Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Questa opposizione non riguardava certo i contenuti, poiché non sarebbe stata cosa giusta disconoscere a quella poesia una sua vitalità, un modo fortemente classicistico di dare forma a un’epoca amante della chiarezza, dei versi controllati e chiusi entro definiti limiti. Si trattava di una poesia che ben si innestava nella società del suo tempo, amante dell’ordine e dell’armonia.

Il decennio che va dal 1910 al 1920, è segnato dalla decadenza dell’astro carducciano: non più ordine e armonia della forma, non più intesa tacita e consenziente dell’io del poeta con il mondo. In questa nuova poesia, si avverte una confidenza con il disordine e un amore per l’ombra, per l’oscurità che conduce all’infinito: si manifesta un’attrazione per l’ineffabile, per ciò che ha sembianze di bruma e che non si può afferrare nel pugno di una mano. Le pagine di questi nuovi poeti – e Macchia pensa soprattutto a Ungaretti – appare disgregata, frantumata, «relitti di un naufragio, di cui ignoriamo tutto». Lo spazio bianco diviene parte attiva dell’espressione, così come vi prendono parte anche le pause e i silenzi; e da questo mondo informe, simile all’omino di fumo di Palazzeschi, nasce «una parola che stride nell’ombra o che taglia la pagina come una lama»[. Questa poesia non vuole più ricostruire il mondo nella sua coesione logica, perché nel mondo, così come lo vedevano e vivevano i poeti di quella generazione, coesione logica non c’è.

L’io del poeta è ormai in solitudine, e questa solitudine è la condizione indispensabile per la creazione di una “poesia pura”, nella quale la vita viene edificata su un istante, su un granello di sabbia, su di una «terra cedevole». Per rendere questa assenza di uniformità dell’esistenza umana, la percezione che il destino dell’uomo si consumasse attimo dopo attimo e che progetti a lungo termine è impossibile farli così come è impensabile costruire un castello di carte pretendendo che rimanga saldamente in piedi, vengono meno, nei versi di questi poeti nuovi, gli elementi esornativi, strutturali e tradizionali. Ciò servì anche a liberare la poesia da residui psicologici col rischio di cadere nel diario e, ancor peggio, nell’affidare alla pagina bianca confessioni che altrimenti sarebbe stato impossibile esternare. Queste osservazioni Macchia le scrisse in un saggio – Aspetti della poesia italiana contemporanea – uscito sul numero del 27 marzo del 1947 della «Fiera Letteraria», e Montale deve averlo senz’altro letto. Si trattava, in realtà, di uno scritto destinato alla rivista francese «Fontaine».

Dopo aver esaustivamente trattato degli aspetti, a suo giudizio peculiari, della nuova poesia italiana, Macchia inizia ad analizzare la forma poetica di Montale che, in quel contesto, a suo dire si distingue. Prima di tutto, la sua non è poesia dell’io, ma poesia «in costante dramma con le cose, in perpetuo movimento»[, che non si costruisce il proprio paradiso e che non si rifugia nell’ombra. Accetta tutti i pericoli della prosa; «il pronome io scompare quasi totalmente, sostituito dal tu che localizza quella posizione di tenace contemplazione. Non gridi dell’anima, né brevi confessioni, non accenti nati dal buio dell’essere, ma una voce che ritrova la sua dimensione, animata e bloccata dalle cose, dallo spazio e dal tempo; una voce che raggiunge la sua solitudine non nelle immensità astrali, ma nella prigione del molteplice, al contatto di una dura materia senza echi (la pietra). Ad un’idea di liricità come lirismo soggettivo, si sostituisce, con uno scoperto amore del concreto e… con una fedeltà all’essenza drammatica, dinamica, della poesia come rappresentazione, un’espressione “indiretta” del sentimento che ha fatto ragionare illustri critici di un’assenza di sentimento… Il poeta darà per simboli la sofferenza di questa sua condizione (i valori di paesaggio), ma con trasposizioni non certo infallibili e automatiche: onde quel senso di vago sgomento, quell’angoscia di non poter penetrare una realtà indecifrabile, e il mondo che si spiega davanti come l’alfabeto di una lingua morta, dissotterrato per caso e di cui s’è perduta la chiave». Il Montale di Macchia è un poeta che non cerca di ricostruirsi un Eden nel quale vivere, non cerca la sua ispirazione in un mondo impossibile: egli trova le origini del suo canto nell’arido mondo in cui vive.

C’è da chiedersi perché Macchia non scrisse quella prefazione tanto desiderata da Montale se poi, scartabellando nel «giallo dello schedario», si ritrovano analisi lucide e misurate come quelle appena riassunte. La stessa diffidenza che nutrì nei confronti di se stesso davanti al compito di scrivere un saggio storico sul poeta amico, Macchia l’ebbe quando iniziò a leggere Baudealire, che amò intensamente fin da quando Trompeo venne a lezione con i Fleurs du mal dall’edizione Plêiade sotto il braccio. Così smisurato era l’innamoramento per il grande poeta francese, che Macchia iniziò a studiarlo partendo dalla sua opera di critico d’arte e letterario, aspetto per il quale nutrì senz’altro passione e ammirazione, ma non sentimenti così forti da guastare quella sana lontananza che uno studioso deve avere e coltivare per guardare ai suoi autori con la giusta prospettiva.

Montale era troppo caro, troppo vicino a Macchia quando gli chiese la prefazione a La Bufera e altro, e troppo vicino era il periodo storico cui quelle poesie si riferivano[.


pierlu83

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