Tamburrano e Nenni: dialogo sul futuro del Paese

Un anno fa ci ha lasciato Giuseppe Tamburrano. Ha lasciato un vuoto che sarà riempito da ciò che ha fatto, da ciò che ha scritto, da ciò che la nostra Fondazione custodirà con orgoglio e attenzione. Ecco perché abbiamo pensato di salutarlo ancora una volta con un brano del libro-intervista con Pietro Nenni: “Intervista sul socialismo italiano”. Un piccolo libro che Laterza pubblicò quaranta anni fa. Erano periodi durissimi. Terrorismo rosso e stragismo nero si confondevano precipitando il Paese nel sangue e nell’angoscia. La crisi petrolifera, la guerra del Kippur, le scelte americane (sganciamento della parità dollaro-oro e denuncia degli accordi di Bretton Woods, aumento dei tassi di interesse mentre da noi l’inflazione correva a ritmi sudamericani) avevano precipitato l’Italia in una situazione pre-fallimentare (il governo Andreotti si presentò dai tedeschi col cappello in mano per chiedere un prestito: venne concesso ma in pegno fummo costretti a consegnare una parte del nostro oro). Le elezioni politiche del 1976 avevano aperto una fase di transizione di complicata lettura. Tamburrano e Pietro Nenni diedero vita a questo dialogo che contiene valutazioni sul futuro che in qualche maniera (soprattutto nella maniera più negativa) troveranno conferma nella realtà dei fatti. Due voci, quella del leader e del suo più fidato collaboratore ai tempi dell’esperienza di governo, uniti in un rapporto simbiotico che fa parte della storia politica di questo paese. Rileggere è come riascoltare dal vivo quelle voci. E ci sembra la maniera migliore per non dimenticare. Mai. 

– GIUSEPPE TAMBURRANO INTERVISTA PIETRO NENNI*-

D.Nelle elezioni del 20 giugno i voti si sono concentrati sui due maggiori partiti. La Dc ha recuperato elettori “mangiando ai suoi figli come Saturno” (come ha detto Forlani). Il Pci ha beneficiato dello spostamento a sinistra prendendo al Psi quel 2 % di voti che i socialisti avevano guadagnato il 1975 sulle politiche del 1972. Molti socialisti contavano su un incremento, speravano di superare il 15%. Sono scesi invece al 9,6%. un grave insuccesso politico, prima che elettorale.

R. Le elezioni del 20 giugno hanno messo in evidenza due tendenze che occuperanno la scena politica ancora per diversi anni. Da un lato la polarizzazione dell’elettorato verso i partiti maggiori. Dall’altro l’esplosione della questione comunista. Quest’ultima tendenza cvovava si può dire da una decina d’anni; dalle elezioni del 1963, quando il Pci conseguì il suo primo notevole successo elettorale, col 25,3% dei voti, mentre il Psi si arrestava al 13,8% malgrado il successo della politica di apertura a sinistra che allora voleva dire apertura verso il Psi. Dopo le elezioni del 1963, Togliatti pose il problema dell’ingresso del Pci nella maggioranza e nel governo, pur sapendo che i tempi non erano maturi. Ma avvertiva il rischio di un’espansione elettorale comunista che non si traducesse in termini concreti di potere, determinando una radicalizzazione estremista del suo partito oppure uno sgonfiamento elettorale, in ogni caso con un rinchiudersi del partito in se medesimo, che era la cosa che Togliatti temeva di più, come mi diceva allora.

Il problema si è ripresentato in termini nuovi e diversi per il Partito comunista dopo il 20 giugno. Togliatti aveva alle spalle il periodo duro dell’affermazione comunista e la svolta di Salerno, e cioè la doppiezza, che per parecchi anni ha caratterizzato l’azione comunista, fra legalità e attesa dell’ “ora X”,

Dietro il nuovo gruppo dirigente c’è una generazione di militanti molto polemica nei nostri confronti anche se impegnata, sospinta dalla forza delle cose, nella riscoperta dei valori di democrazia e di libertà dei quali Berlinguer si è fatto interprete a Mosca e a Berlino Est.

I vantaggi di una campagna elettorale di questo tipo si sono concentrati sui due maggiori partiti, col 38,7% alla Dc e il 34,4 al Pci. La Dc ha così rivelato una capacità di recupero (rispetto alle elezioni regionali del 15 giugno 1975) che non credevamo fosse possibile e il Pci le si è portato a ridosso insidiandola nella sua posizione di maggioranza relativa. Di qui l’impossibilità per la Dc di scegliere indifferentemente a sinistra o a destra come aveva potuto fare dopo le elezioni del 1972 dando vita a un ministero di centro sotto la presidenza dell’onorevole Andreotti. Il medesimi Andreotti che dopo le elezioni del 20 giugno ha risolto la crisi ministeriale con un monocolore democristiano senza maggioranza e costretto a navigare nel mare infido delle astensioni.

Nel recupero della Dc, il fatto nuovo è che esso si è fatto non solo a spese della destra nazionale, com’era nell’ordine naturale delle cose, ma si è fatto a detrimento del centro laico, dei socialdemocratici che sono stati dimezzati, dei liberali che sono stati annientati, degli stessi repubblicani che hanno mantenuto le loro posizioni che alla vigilia delle elezioni parevano in sviluppo.

Nell’avanzata comunista il fatto nuovo è che il Pci ha inciso non solo sull’elettorato dell’area socialista – mietendo nell’orto del vicino, come avrebbe detto Togliatti – ma ha inciso sull’elettorato dichiaratamente borghese.

Tanto per la Dc, quanto per il Pci, l’elettorato guadagnato sui settori di centro non sarà facile da amalgamare. Ma l’avanzata c’è stata e bisogna farsene una ragione non per rassegnarvisi ma, al contrario, per risalire la corrente.

In questo tipo di confronto elettorale noi socialisti siamo apparsi perdenti al di là delle stesse cifre.. Il quoziente elettorale è il 9,6%, esattamente come nelle elezioni politiche anticipate del 1972, ma in regresso rispetto al 12% raggiunto nelle amministrative del 15 giugno 1975. Siamo così al limite di guardia sotto il quale non si può andare senza perdere i caratteri di un partito di massa. Siamo rimasti schiacciati tra il 38% dei voti democristiani e il 34% dei voti comunisti.

Per contro siamo più determinanti, rispetto ai nuovi schieramenti parlamentari, di quanto non lo fossimo dopo le elezioni del 1972, nelle quali la Dc aveva conservato una posizione di scelta fra destra e sinistra che non ha più.

L’essere ad un tempo indebolito e determinante espone il Psi a tutte le seduzioni e a tutte le tentazioni, col rischio di diventare il partito degli “assessori” (secondo l’espressione che adoperai parlando al XL congresso sulla questione delle giunte) o il partito dei ministri. Cioè la condizione più difficile che si possa immaginare e che richiederà, per essere affrontata, una forza morale di cui sovente nella storia i socialisti hanno dato prova.

  1. Il Psi è ancora condizionante politicamente, ma nella misura in cui cade la preclusione democristiana contro il Pci diventano possibili, e non solo numericamente, maggioranze senza i socialisti. Se il Psi favorisce l’incontro – e di fatto sta facendo questo – tra Dc e Pci, in definitiva favorisce un processo che rischia di renderlo meno determinante.

R. Una delle incongruenze delle elezioni del 20 giugno è, come dicevamo, che esse, mentre sul piano dell’aritmetica elettorale, ci hanno indeboliti, sul piano politico-parlamentare hanno fatto di noi gli arbitri di ogni possibile soluzione: dell’asse privilegiato con la Dc, che ci varrebbe un largo accesso alle poltrone ministeriali, ma anche del “compromesso storico”. Senonché la soluzione non è né l’asse privilegiato con la Dc, di cui mancano le condizioni sociali e quelle politiche, né il compromesso storico, che praticamente non ha nessun addentellato nei fatti. La sola soluzione aderente alla realtà rimane quella di una maggioranza e di un governo di emergenza in grado di aggredire i problemi urgenti del paese; i quattro, cinque nodi da sciogliere con carattere prioritario. Altrimenti viene voglia di dire con Marx che i programmi sono reazionari nel senso che quando si arriva al punto finale del loro iter già sono superati.

  1. Una soluzione difficile anche questa, per l’avversione della Dc. Comunque un governo di emergenza, capace di risolvere i problemi più urgenti, trarre il paese dalla crisi e rimetterlo in piedi è di per sé una soluzione di breve periodo, che comporta la partecipazione – anche se in forme diverse – di tutte le forze dell’arco costituzionale, poiché sono “tutte nella stessa barca”. Rimesso in condizioni di muoversi il paese dovrà scegliersi la strada che intende imboccare (e le strade sono sempre più di una) o, per restare all’immagine precedente, rimessa la barca in condizioni di navigare, si dovrà scegliere la rotta e chi sta al timone. Il Pci ha la sua strategia di lungo periodo: il compromesso storico. Il Psi ha la sua strategia, l’alternativa, cioè una linea di tipo ”mitterrandiano”.

R. La prospettiva di tipo “mitterrandiano”, cioè l’alleanza della sinistra contro la destra, seduce alcuni settori dell’area socialista. E certo nessuno può escludere un’evoluzione della situazione italiana nel senso di quella francese. La sinistra francese punta al 51% dei voti sulla base di uno schieramento di sinistra nel quale i socialisti sono in maggioranza rispetto ai comunisti. Il partito comunista francese muove da condizioni di schieramento che sono proprie della società francese e sono assai diverse da quelle italiane.

Noi in particolare non possiamo dimenticare che Mitterrand e il Partito socialista francese hanno alle spalle la spinta di una unificazione socialista riuscita, mentre noi abbiamo alle spalle l’unificazione fallita nel 1969.

  1. Ma se il Psi esclude il centro-sinistra, aversa il compromesso storico e ritiene non attuabile, nelle condizioni presenti, l’alternativa, vuol dire che vive alla giornata. Oggi è ancora condizionante politicamente. Ma senza una sua ipotesi politica di lungo periodo può avviarsi verso il declino…

R. Non è detto. La nostra funzione rimane quella di secondare la vita democratica delle masse, la riforma dello stato, la riforma della società in termini di libertà e democrazia. “Presenti sempre e dovunque nella pienezza della nostra autonomia”, questo deve diventare il nostro motto; presenti contro la destra insidiosa; presenti contro l’egemonia e la politica calata dall’alto , di cui si ritrova l’impronta sia tra i comunisti che tra i democristiani; presenti nelle lotte sociali e civili di ogni giorno. Quindi ancora un lungo cammino da percorrere e nel quale il nostro partito ha un ampio margine di sollecitazione, di iniziativa, di lotta fuori dalle profezie su una sua ormai inevitabile decadenza. Non c’è niente di inevitabile nel domani che ci attende. L’urgenza che incombe è ritrovare la capacità di fare politica coprendo le esigenze di rinnovamento comuni all’intera area socialista.

* Pietro Nenni: “Intervista sul socialismo italiano”, a cura di Giuseppe Tamburrano; Laterza, 1977, pp. 167

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