Il lato vero dell’economia: l’impasse dell’euro e dell’Unione Europea

-di FRANCO CAVALLARI-

Il rifiuto dei vincoli dell’euro, alimentato per lungo tempo nel tessuto sociale del Paese dalla propaganda delle forze politiche populiste, recentemente sembra essersi un po’  attenuato. Per gran parte dell’opposizione, tuttavia, la questione europea resta un nodo da sciogliere attraverso una modifica sostanziale dell’Unione. Una trasformazione da cui scaturisca una sorta di mercato comune leggero, una zona di libero scambio in cui non sia esclusa la possibilità di dazi protettivi di carattere nazionale; in sintesi, una comunità di Stati “sovrani” che contempli a livello nazionale il controllo della moneta, il presidio dei confini e l’assenza di vincoli per la finanza pubblica.

Nella costruzione europea, che per 70 anni ha assicurato ai suoi cittadini prosperità e pace, si riscontrano, effettivamente, non poche lacune, alcune delle quali molto penalizzanti per il nostro Paese. Il Sistema dell’Unione concepito a Maastrict nel 1992 è approdato nel 1999 alla moneta unica, in un contesto economico ancora caratterizzato da vistose disparità strutturali. I corollari dell’euro (istituito anche per arginare lo strapotere del marco), ossia il “Patto di Stabilità e Crescita” del 1998-99 e il “Patto di Bilancio” (Fiscal compact) del 2012, hanno invece reso ancora più profonde tali disparità. In questa situazione, la Germania ha potuto usufruire del cosiddetto “vantaggio esorbitante”, un’asimmetria perversa evidenziata in sede di costituzione dell’euro dal Premio Nobel Franco Modigliani; il quale paventava che, in assenza di un sistema di flussi riequilibratori tra gli Stati, si sarebbero verificate onerose restrizioni di bilancio per i Paesi più indebitati, mentre, di fatto, il Paese egemone avrebbe potuto generare deflazione attraverso l’accumulo di ingenti surplus della bilancia dei pagamenti. 

L’idea dell’uscita dall’euro ha preso vigore anche per le riflessioni critiche formulate da altri Premi Nobel, come Joseph Stiglitz e Paul Krugman e, più recentemente, Amartya Sen e Oliver Hart. Con accenti molto diversi tra loro, essi hanno ribadito che la moneta unica tra Paesi economicamente così diversi non può resistere a lungo senza flussi finanziari compensativi, specialmente in periodi di  recessione o di stagnazione. In ogni caso, questi studiosi hanno ammesso l’estrema pericolosità di un’uscita unilaterale dall’eurozona e anche di un negoziato multilaterale che sancisse la dissoluzione della seconda moneta di riserva del mondo.

Un’importante riflessione in materia si riferisce al prospettato controllo nazionale della moneta. L’idea che la svalutazione del cambio renda possibile  la ricostituzione dei margini di  competitività perduti è un’illusione ottica pericolosissima, come insegna l’esperienza storica dei Paesi, come l’Italia, che in passato hanno forzato le proprie possibilità di sviluppo a colpi di svalutazioni monetarie. In realtà, la svalutazione peggiora le ragioni di scambio, realizzando la svendita delle nostre risorse all’estero, in primo luogo del lavoro.  Svalutando si entra in un’affannosa corsa ad ostacoli crescenti, le cui conseguenze, vale a dire le distorsioni indotte dall’inflazione importata e dai reiterati slittamenti del cambio, gravano poi per decenni sulle generazioni successive. La fragilità economica, che nel contesto della crisi attuale rende da molti anni così difficoltose per il nostro Paese la ripresa della crescita economica ed il controllo del debito pubblico, costituisce l’inevitabile eredità delle svalutazioni della lira effettuate negli ultimi decenni del secolo scorso.

Non è difficile immaginare le conseguenze a cascata derivanti dall’abbandono  dell’euro da parte di uno dei grandi Paesi fondatori: una reazione a catena negli altri partner che trascinerebbe con se il dissolvimento dell’accordo monetario e, probabilmente, anche di tutte le altre politiche dell’Unione. Finirebbe così in rovina la più proficua e lungimirante costruzione unificante dello sviluppo dei popoli mai realizzata in tempo di pace; il tessuto di strette relazioni economiche e politiche costruito per decenni verrebbe meno e dalle sue ceneri emergerebbe, probabilmente, il nazionalismo di Stati votati all’autarchia e all’autoritarismo.

Ai nostri figli ed ai nostri nipoti lasceremmo in eredità un continente condannato all’irrilevanza nella politica mondiale, disseminato di muri e di barriere, utili solo ad esorcizzare le paure ed il cieco egoismo dei suoi cittadini. Un clima politico-culturale in cui attecchirebbe facilmente la conflittualità tra Paesi che si sono combattuti per secoli, mettendo  a repentaglio il godimento inestimabile del dividendo della pace, di cui hanno usufruito intere generazioni di cittadini europei.

Dall’attuale situazione di impasse dell’euro e dell’Unione è d’uopo trarre una prima conclusione: l’euro non è irreversibile, poiché, come qualsiasi realtà umana, può essere distrutto dall’insipienza umana. Ma il suo inestimabile valore può essere salvaguardato, ridestando i popoli europei dal dormiveglia della ragione, che ha prodotto la febbre demagogica dell’insensata avversione alle politiche ed alle istituzioni comunitarie. Occorre vivere questo periodo di grandi difficoltà come un Kairos, un tempo di opportunità, per contrastare il pericolo della desertificazione economica e sociale che il populismo comporta.

Alla classe dirigente tedesca spetta il compito principale di salvare l’Europa dai nazionalismi, accettando l’idea che l’euro non può essere un marco mascherato e che la miopia di una rigida austerità conduce i Paesi europei verso rovinose catastrofi democratiche. E non rifiuti a priori  di europeizzare parzialmente, insieme ai suoi partner, alcuni problemi non risolvibili a livello nazionale: in primo luogo la stagnazione economica e poi, gradatamente, gli investimenti, il debito pubblico, la povertà, le migrazioni, le banche.

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