-di GIULIA CLARIZIA-
Volando virtualmente a Gerusalemme, tramite Google Maps, se ne può già cogliere la peculiarità. Un intrico di confini contesi e non definiti, di linee tratteggiate.
La storia di Gerusalemme come città rivendicata da diverse civiltà è antica quanto sono antiche le tre religioni monoteiste per le quali è sacra. Tuttavia, il peculiare status giuridico in cui la città si trova attualmente, risale al sorgere del moderno conflitto israelo-palestinese. Oggi, in particolare, ricorre l’anniversario di un avvenimento che ne ha cambiato le sorti e complicato la situazione.
Il primo agosto del 1967, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, Israele occupò Gerusalemme est.
La città, secondo il piano delle Nazioni Unite del 1947, sarebbe dovuta diventare un territorio internazionalizzato, né arabo né israeliano, dove fossero garantite a tutti le libertà di accesso ai luoghi di culto (questione riesplosa in maniera drammatica in questi giorni, dopo l’uccisione di alcuni soldati drusi-israeliani e la chiusura della Spianata delle Moschee imposta dal premier Benjamin Nethanyahu, con il conseguente rischio di una nuova Intifada palestinese).
L’ipotesi di soluzione prefigurata dall’Onu alla prova dei fatti (come è a tutti evidente) non ha rasserenato il clima di un’area caldissima semplicemente perché ciò che fu deciso al Palazzo di Vetro ha dovuto fare i conti con i numerosi conflitti che si sono aperti nei settant’anni successivi (ancora in corso, peraltro). Gerusalemme, la Città Santa per antonomasia, è da sempre luogo di scontro più che di preghiera. Le vicende del ’67 non hanno fatto altro che accentuare la debolezza della soluzione trovata teoricamente dall’Onu visto che a conclusione della prima guerra arabo-israeliana, una parte, quella ovest, fu occupata da Israele mentre la parte orientale, comprendente la Città Vecchia, fu invece annessa dalla Giordania insieme alla Cisgiordania.
La Guerra dei Sei Giorni, insomma, ruppe lo status quo con tanto di condanna dell’occupazione da parte delle Nazioni Unite.
La comunità internazionale non riconosce la sovranità di Israele su tutta la città, ma si tratta di una foglia di fico perché nei fatti Tel Aviv ne detiene tutt’oggi l’effettivo controllo. La questione nel tempo si è ulteriormente complicata e oggi non è più una semplice contesa territoriale.
Nel 1980, infatti, Israele ha eletto Gerusalemme a capitale dello stato “completa e unica”. Dalla parte opposta, i palestinesi rivendicano lo stesso diritto sulla parte est.
Da questa impasse (simbolo in qualche modo dell’impasse in cui versa il conflitto israelo-palestinese in generale) non si è ancora usciti, nonostante l’avvio di numerosi negoziati e infruttuosi che da Carter a Obama (Trump meglio lasciarlo perdere visto che in questo momento più che la soluzione del problema, è il problema) passando per Sadat e finendo ad Aaraft e Rabin, hanno suscitato solo grandi speranze promuovendo in realtà solo cocenti delusioni, non riuscendo a stabilizzare un’area che è diventata col tempo il luogo più instabile della terra con la conseguenza di diffondere tale instabilità a gran parte dei territori limitrofi. La pace è rimasta una speranza mentre le tensioni tra le parti in conflitto sono aumentate scandite da intifade periodiche, attentati, repressioni, processi di colonizzazione forzata che certo non aggiungono al quadro motivi di rasserenamento. E un esempio concreto è venuto un paio di settimane fa quando due agenti israeliani sono rimasti vittime di un attacco rivendicato da Hamas, attacco a cui le autorità israeliane hanno reagito chiudendo la Spianata delle Moschee, dove aveva avuto luogo l’aggressione, e avviando una vasta “retata” anti-palestinese.
Anche dal punto di vista politico, gli eventi degli ultimi mesi parlano chiaro.
A qualche giorno dal cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, lo scorso maggio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito che Gerusalemme è sempre stata e sempre sarà la capitale di Israele. E ha fornito plastica conferma alle sue parole riunendo il governo in uno dei tunnel che passano sotto il Muro del Pianto.
La comunità internazionale, che nel corso degli ultimi settant’anni non è stata molto risoluta, continua a discutere su quale sia il miglior modo per portare la pace in Medio Oriente e a Gerusalemme.
Sulla questione, poi, pesa l’atteggiamento degli Stati Uniti non sempre chiarissimo, ma si sa: la politica estera americana spesso fatica a fare i conti con le complessità europee e, a maggior ragione, arabe. E poi alla Casa Bianca non possono non tener presente il ruolo strategico da un punto di vista militare svolto da Tel Aviv. Washington, ad esempio, riconoscono da tempo Gerusalemme come capitale de facto di Israele, pur non avendo mai osato trasferirvi la loro ambasciata e sino a Trump, che in queste vicende si muove spesso con la stessa leggerezza di un elefante in una cristalleria, avevano anche omesso di prometterlo. Il nuovo presidente, invece, in campagna elettorale non si era risparmiato neanche questa promessa salvo poi farla scivolare nel dimenticatoio, assumendo, poi, nell’ultima visita a Gerusalemme una posizione genericamente più dialogante, quasi proponendosi come mediatore tra cristiani, musulmani ed ebrei.
Putin che si muove con maggiore scaltrezza e doppiezza, invece, in una telefonata con Netanyahu ad aprile, scorso ha riconosciuto a sorpresa Gerusalemme Ovest come capitale israeliana, ma ha sottolineato al tempo stesso il suo sostegno alla nascita di uno stato palestinese con al suo interno la parte di città che lui riconosce come capitale di Israele.
Sullo sfondo del gioco politico, quello che resta è una città ricca di paradossi. Da un lato essa è divisa, in tensione, abitata da due popolazioni differenti dal punto di vista culturale e, soprattutto, da quello del benessere economico. Dall’altro è un simbolo che da secoli attira pellegrini da tutto il mondo.
A Gerusalemme si va per pregare, e l’aura mistica della preghiera si scontra duramente con il clima del conflitto.