Stato e imprese: Macron lucra sugli errori della sinistra

 

-di SANDRO ROAZZI-

Forse dietro lo scontro franco-italiano su una posta in gioco come quella dei cantieri navali si nasconde un problemino assai più intrigante e di spessore. Perché potrebbe non essere solo la rincorsa ad una nuova grandeur francese a spingere Macron su posizioni dure, ma piuttosto la necessità di riposizionarsi rispetto alla mutazione della globalizzazione mondiale i cui correttivi più evidenti hanno due nomi: ritorno dell’intervento pubblico e difesa dei capisaldi economici strategici. Se così fosse saremmo di fronte ad un cambiamento di non poco conto e che si raccorda a comportamenti che stanno riprendendo piede nel mondo. In Germania un intervento legislativo recente punta a mettere in sicurezza la proprietà delle società strategiche.

Ma se così fosse sarebbe assai utile che la lettura del “dove va” l’economia mondiale da parte della politica, della Confindustria e dei sindacati si aggiornasse velocemente. In questo senso la sudditanza delle sinistra e dei suoi “eroi” politici della seconda Repubblica si rivela ancor più miope e provinciale oltre ad aver sradicato per la sola ambizione di potere le radici della cultura riformista. Sembra infatti che ormai la stagione del libero mercato nel quale sguazzano indisturbati la finanza e i potentati economici ed ai quali tutti devono obbedienza stia davvero volgendo al termine.

Inevitabile allora che il primo scostamento richiami in causa il ruolo degli Stati nazionali e una maggiore attenzione a difendere i punti strategici dell’economia reale per garantire un futuro alla vocazione storica in economia dei diversi Paesi. Da noi per la verità il ruolo dello Stato non fa più nemmeno parte della riflessione culturale, mentre parlare di modello di sviluppo sollecitava (e forse sollecita ancora oggi) ironie di ogni genere, presuntuose quanto sterili e mediocri.

Vediamo come del resto nel tempo si è snodato il confronto fra le due economie, francese ed italiana. Secondo studi di Kpmg gli investitori francesi hanno fatto… spesa in Italia per 52,3 miliardi di euro. L’Italia viceversa può opporre solo 7,6 miliardi. Inutile dire che già solo questo dato condiziona il diverbio sui cantieri di Saint Nazaire. Inoltre fra i colossi economici in grado di far valere una potenza… di fuoco determinata dalle tecnologie avanzate in quel settore noi possiamo vantare solo Finmeccanica e Leonardo. Francesi, tedeschi e britannici ci sopravanzano di molto.

Insomma mentre noi schifavamo, da sinistra (sic!), l’opposizione al procedere incontrastato delle logiche di mercato, stavamo facendo la fine dei pesci piccoli in un oceano di squali. Ma evidentemente questo per non pochi ed autorevoli eredi del Pci e del cattocomunismo era “robetta”. Certo sono gravi gli indirizzi culturali e le scelte politiche ed economiche poste in essere dalla destra italiana. Ma chi doveva soprattutto presidiare culturalmente e sul piano politico il fronte dell’evoluzione economica perché garantisse non solo la tenuta del nostro modello manifatturiero ma anche la speranza di lavoro e di reddito per i giovani e per le famiglie del futuro? Certo la sinistra i cui vertici in questi anni hanno preferito però cancellare le lezioni del passato, ingombranti, ed hanno abdicato ad un ruolo di coscienza critica del capitalismo, non a caso assunto, in nome della giustizia e solidarietà, senza peli sulla lingua dal Papato.

In questo senso la cultura economica della sinistra che ha “contato” nel potere di questo Paese ha perso ogni identità e non serviva certo tornare a Marx per capire cosa stava accadendo con ingiustizie e diseguaglianze annesse.

I limiti di ieri che ci fanno penare sono anche il frutto di questo doppio atteggiamento della sinistra italiana: di abiura e di rinuncia.

Se si è impoverita la forza della nostra economia lo si deve, va detto, in buona parte a questa arretratezza culturale e alla insipienza politica che ne è stata diretta conseguenza.
Si pensi solo a questo dato: la Volkswagen, da sola e nonostante i guai che ha passato, ha un giro di affari che è il doppio dei nostri primi 10 gruppi manifatturieri che ammonta a oltre 80 miliardi. La grande industria tedesca fa profitti che si aggirano sui 200 miliardi di euro, quei nostri dieci gruppi stentano a superare i 4. Con la postilla che vanno meglio i gruppi privati di quelli pubblici superstiti.

Se l’onda montante è ora quella di puntellare le posizioni di forza delle proprie economie, si comprende bene i rischi che il nostro Paese, impreparato, isolato e più debole, corre. In più lo Svimez ci ricorda che dobbiamo fare i conti con lo storico divario nord-sud. Dal 2008 le regioni meridionali hanno perso 380 mila posti di lavoro e sul piano economico raggiungeranno i livelli pre-crisi, sempre secondo Svimez, solo nel 2028. Con il paradosso che il Parlamento vota un decreto per il Sud ma lo Svimez ci rammenta che intanto gli investimenti pubblici sono dati in calo. Il mondo del lavoro viene intanto sorretto da lavoratori anziani, part time e contratti a termine, mentre 10 abitanti su 100 sono in una condizione di povertà assoluta. Ovviamente ci sono aree di eccellenza, recuperi importanti in tema di Pil che però torna a correre sotto i valori del nord: l’anno prossimo uno 0,9% rispetto ad un 1,2%. Se questo vuol dire… accorciare le distanze… Pare che sia arrivato il momento di tornare a chiederci cosa vuol dire per l’Italia essere un Paese manifatturiero, quali le strategie da percorrere e difendere, quale il modello di sviluppo che può farci camminare lontano da stagnazione e declino. Con un bagno di umiltà questo è un compito che spetterebbe ancora alla sinistra politica e sociale. Sempre che batta un colpo.

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