-di FEDERICO MARCANGELI-
Circa 1000 amministrazioni e più di 9 milioni di italiani chiamati alle urne. Il voto di domani non è certo di poco conto, con 25 capoluoghi alla ricerca di nuovi rappresentanti.
Strategicamente stiamo parlando di molti comuni importanti, sia per le forze politiche (che vogliono una cartina di tornasole del loro consenso) che per la nazione (vedasi Taranto o Genova).
Il ruolo del sindaco ha infatti rappresentato per anni una sfida decisiva per i partiti, vista la sua grande vicinanza alla popolazione. Gli stessi elettori rivolgevano al primo cittadino una grande attenzione e le Comunali hanno riscosso da sempre una grandissima partecipazione. Questa tendenza era stata recepita anche dal legislatore, che nel 1993 introdusse l’elezione diretta dello stesso sindaco: un presidenzialismo comunale in cui questa figura giocava un ruolo fondamentale. Ma dai primi anni 2000 ad oggi il trend è cambiato. La sfiducia degli elettori ha portato ad un paradossale svilimento del ruolo. Paradossale perché nel contempo i poteri del sindaco sono aumentati, proprio negli ultimi quindici anni.
I dati parlano chiaro e non lasciano spazio a molte interpretazioni. Dalle elezioni amministrative del 2001 ad oggi si è perso un terzo degli elettori, anche nelle città più importanti. Proprio in quell’anno la media è stata dell’80,6% di votanti, con picchi dell’83% in alcuni comuni. Questo dato è sceso drasticamente nel 2006, con il 71,2% degli aventi diritto accorso alle urne. In soli 5 anni c’è stato un crollo di circa il 10%, con il centro-sud capofila di questa disillusione. I dati cominciarono a diventare preoccupanti a partire dal 2011: 70% al primo turno e 60% al secondo. Oltre alle cifre complessive in calo, stupisce il fortissimo gap che si è andato creando tra le due tornate elettorali, anche questo in forte aumento rispetto al passato. Si pensi che nel 2001 lo scarto negativo tra i due si assestava sul 5-6%. Questa statistica è altrettanto importante per comprendere la sfiducia nel ruolo del sindaco. L’elettore non è infatti più spinto a votare nel caso in cui il suo candidato non raggiunga il 2° turno. Il minimo storico è stato però raggiunto l’anno scorso, con una media del 59,9 per cento alla prima tornata, seguito dal 50% alla seconda. In questo quadro avvilente, stupiscono i dati delle grandi città del sud, in particolare di Napoli. Dal 2011 ad oggi la metropoli è sempre stata ben al di sotto della media nazionale (di circa il 10% per ogni turno), con un incredibile 38% nel ballottaggio del 2016.
Tutti questi numeri dipingono un quadro di totale sfiducia nelle amministrazioni comunali. La causa dominante è probabilmente quella di una complessiva avversione verso la classe politica italiana, ma c’è di più. La mancanza di interesse verso le elezioni comunali rappresenta una disillusione ancora più profonda, perché riguarda l’istituzione più vicina al cittadino. Non i palazzi del potere di Roma o i “carrozzoni” regionali, ma la propria città ed il proprio municipio. Se nemmeno la vicinanza e l’utilità più diretta spingono l’elettore a votare, cosa lo farà? Questa domanda forse è la più importante di tutte, perché mette in discussione lo spirito stesso della democrazia. Un ideale che è nato dal basso e che da lì bisogna far ripartire.