-di SANDRO ROAZZI-
Il Tar del Lazio manda all’aria alcune nomine a Direttori di musei ed ecco subito polemiche: chi attira l’attenzione su quanto prescrive la legge e chi invece boccia il… provincialismo che legge nel caso. Non siamo messi bene. Renzi si espone in prima persona con un gioco di parole secondo il quale era giusto cambiare per i musei ma bisognava farlo anche per il Tar. Il ministro Franceschini evoca esempi internazionali per esternare la sua preoccupazione di un’Italia che ora puo’ rischiare di essere messa alla berlina dopo il parere del Tar.
E dietro questa contesa si sente però anche… puzza di una burocrazia che non vuol cedere le sue prerogative. La legge è legge si dice: d’accordo ma anche la legge più democratica può portare fuori strada se la sua applicazione è tanto rigida da perdere di vista la realtà. Ed ormai in Italia siamo soffocati da una congerie di leggi di questo tipo.
Difficile dire chi ha ragione in questo caso ma a perderci è certamente la valorizzazione del nostro patrimonio artistico. Il tentativo di Franceschini era quello di puntare su direttori-manager che per la dizione stessa non potevano essere italiani. Ma qui si annida il primo errore. Capita non di rado vedere piccoli musei che sono dei gioielli perché gestiti con fantasia, con evidente passione da esperti italiani. Purtroppo tutto ciò avviene senza adeguata promozione e lasciando chi dirige in balia di sé stesso.
La prima alternativa allora era quella di scovare le eccellenze, che ci sono, nella direzione dei nostri musei e siti archeologici, rompendo sia con uno stantio schema di scelta burocratica, sia con l’opzione di privilegiare nomi alla moda e manager ambiziosi da legare al proprio carro politico. Le decisioni prese se paiono apparentemente lontane dal provincialismo, in realtà sembrano la prosecuzione di un costume che sceglie secondo tipiche convenienze da clan. A quel punto perché meravigliarsi se c’è chi insorge per reclamare a sua volta quel posto impugnando l’iter di nomina magari non puntuali come chiede la legge?
La scelta di investire in cultura dovrebbe essere sottratta a questo groviglio di intenzioni e contrapposizioni. Renzi e Franceschini vogliono apparire come modernizzatori perché infilano nomi stranieri nella gestione culturale, ma non riescono comunque né ad allontanare la sensazione che si tratta di fuochi di artificio isolati, né riescono a convincere che il loro vero avversario sia una burocrazia provinciale. Riorganizzare la cultura è opera benemerita, intendiamoci, esperienze straniere possono essere certo utili. Ma invece di bearsi con questo o quel nome che poi il Tar rigetta, perché non si è cominciato collocando questo progetto dove deve stare, vale a dire come un pilastro di un diverso modello economico. Il che vuol dire in primo luogo cancellare la vischiosità politica alla quale è stata abituata da decenni la nostra dirigenza pubblica; in secondo luogo far emergere le migliori risorse umane a disposizione a prescindere dai loro convincimenti e dai loro eventuali padrini politici; in terzo luogo varare un progetto di cultura 4.0, tanto per dirla con termini in voga, in grado di innovare, rivoluzionare orari e modo di fruire la cultura, di promuovere percorsi nuovi, di valorizzare, in modo assai più convincente della “cattura” di un intellettuale che parla inglese o francese, il nostro patrimonio artistico all’estero e verso quei mondi che muoveranno sempre di più turismo benestante a milioni. Ed in quarto luogo legare il tutto alla manutenzione a tappeto delle nostre bellezze che in alcuni casi come a Roma con il suo enorme patrimonio archeologico vuol dire mettere in sicurezza anche estensioni notevoli di centro urbano.Dando tanto lavoro e sperimentando nuove tecnologie.
Dall’episodio del Tar invece emergono solo vecchi difetti: una politica che gioca con gli… effetti speciali, una ennesima prova di leggi maldigerite dalla nostra burocrazia, un Tar che finisce anche suo malgrado con il sostituirsi a scelte che dovrebbero essere terreno proprio di una politica che pensa al futuro. Ma non c’è da stupirsi, per cambiare sul serio non bastano le diatribe sulle norme. Serve vera qualità politica.