-di SANDRO ROAZZI-
Dunque l’Italia ha perso 20 anni secondo il Presidente di Confindustria. Praticamente abbiamo accumulato ritardi dal primo Governo Prodi (1997) cui seguì quello di D’Alema, prima di approdare al quinquennio berlusconiano. Frase che alla luce di questi ricordi storici suona ironica, quasi sottilmente perfida. Venti anni, ovvero gli anni duemila, prima e dopo la recessione, figli di una seconda Repubblica che però ha visto la Confindustria fra i grandi cantori e gli ambiziosi protagonisti. Non si può dimenticare che nella famosa Assemblea di Parma agli inizi degli anni ’90 giustizialismo e sistema maggioritario furono venerati come il nuovo Vangelo politico ed istituzionale. Confindustria dimentica che gli anni della seconda Repubblica la videro fra i suggeritori più ascoltati delle scelte economiche che però ci hanno confinato in un ruolo di lento fanalino di coda dello sviluppo in Europa. L’impresa divenne “centrale” sostituendosi ad un calante potere sindacale, ma senza apprezzabili miglioramenti visto che il Paese è peggiorato da tutti i punti di vista possibili. E non gli sovviene che in questi ultimi anni anche essa ha subito una silenziosa emorragia di consensi, primo fra i quali quello della Fiat-Fca, quasi apparisse anche essa non più in grado di tenere il passo dei cambiamenti.
Leggere la storia come se fosse il frutto esclusivo delle azioni degli altri non e’ mai un buon metodo. E non lo è soprattutto quando nell’ultimo scorcio di politica economica dei Governi il grosso delle risorse sono andate verso imprese. Alle quali era stato solo chiesto di tornare ad investire… appello in buona parte caduto nel vuoto.
La relazione del Presidente Boccia reclama nuovamente risorse per annullare il cuneo fiscale per i giovani. Da ridurre, poi, per tutti gli altri lavoratori. Variante degli incentivi appena… defunti, ma che ancora una volta non dice molto sulle prospettive economiche e sociali che Confindustria ritiene essenziali per contrastare il declino del Paese.
Certo, resta aperto il dialogo con i sindacati che però stando alle richieste avanzate è tutto fuorché un pilastro centrale della strategia confindustriale. Una sorta di invocazione che non spiega però come mai mentre si rilancia il Patto per la fabbrica in Italia si siano rinnovati numerosi contratti nazionali che hanno aperti scenari nuovi ma proprio sconfessando quella direzione di marcia evocata quasi ideologicamente con il Patto dalla dirigenza degli industriali privati.
Il dialogo fra le parti sociali è comunque una necessità da garantire in un periodo nel quale la politica appare deficitaria di progetti per rilanciare la crescita. Ma c’è da domandarsi se non sarebbe stato meglio ripartire da ciò che i contratti hanno seminato per il futuro piuttosto che rispolverare slogan piuttosto fragili e senza respiro strategico.
Le relazioni industriali se hanno un senso oggi lo hanno perché possono servire a fare da apripista in un contesto politico quanto mai confuso ed incerto. Con tutte le preoccupazioni del caso, visto che probabilmente siamo alla vigilia di cambiamenti inevitabili nella politica della Bce e nella riflessione sul futuro dell’Europa.
Boccia ed il vertice Confindustriale invece sembrano voler proseguire sulla via di convenienze e prerogative da difendere. Sembra proprio che gli ultimi venti anni siano serviti poco anche a loro. Ed è un peccato perché da questa dirigenza ci si può aspettare di più. Non bastano gli applausi al ministro Calenda per apparire “moderni” tanto più che il suo isolamento si avverte sempre più distinto. Sarebbe stato invece più interessante ascoltare una proposta di politica economica da parte di una Confindustria più… forza sociale e meno Istituzione autoreferenziale. Il tempo c’è ancora per cambiare, ma esso può essere usato bene se emergerà quella rappresentanza degli interessi imprenditoriali che più guarda al domani, che non ha paura di fare i contratti, che non considera le diseguaglianze una esercitazione sociologica inconcludente. E che non fonda la sua forza sui soliti potentati, ma sulla parte più dinamica delle imprese che continuano a scommettere sul brand Italia. Per ora purtroppo però proprio questa spinta stenta a manifestarsi. Ed i venti anni perduti non possono certo assolvere l’operato di Confindustria.