Federico Caffè, trent’anni senza i suoi insegnamenti

-di SALVATORE BONADONNA-

Sono passati trent’anni dacché un piccolo grande uomo, intellettuale multiforme e maestro della economia politica ha fatto perdere le proprie tracce.

Federico Caffè, personalità complessa e tormentata l’ha definito Ermanno Rea nel suo L’ultima lezione, si eclissa nell’aprile del 1987 e vane sono state le ricerche sul suo destino. Aveva visto tanto, aveva vissuto intensamente il suo tempo, aveva previsto i possibili nefasti sviluppi delle vicende degli anni ’80 e decide di chiamarsi fuori. Not in my name dice adesso il suo amico e discepolo Bruno Amoroso, scomparso tre mesi fa, chiudendo il suo bellissimo racconto autobiografico Memorie di un intruso: “Federico capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio”. Una indicazione chiara che solo il fratello minore e discepolo stimato era in grado di dare.

Ciò detto ci manca. Manca la forza lucida e mite del suo pensare critico, la saldezza dei principi che sapeva coniugare con l’apertura al confronto e l’attitudine a cogliere il senso profondo dei cambiamenti nella società e nei rapporti di potere. Generosamente pronto a mettere a disposizione il suo sapere e il suo pensiero per ogni progetto ritenuto capace di fare progredire la qualità della vita delle persone, delle comunità, degli Stati, dell’umanità. I molteplici campi in cui svolse il suo lavoro ne sono testimonianza: dalla Banca d’Italia al Governo, dall’Università al sindacato, nella dimensione nazionale e in quella internazionale.

Ricordo con affetto ed emozione la sua partecipazione ad un corso per quadri sindacali presso il Centro di Formazione della CGIL di Ariccia che allora dirigevo. La curiosità e l’allegria con cui si rapportava ad un collettivo diverso da quello delle aule universitarie e che gli riproponeva questioni sulle quali per anni aveva dato il suo contributo di idee finalizzate all’agire politico per creare condizioni di piena occupazione e di pienezza di diritti senza di che può aversi crescita economica ma non progresso sociale.

Questo binomio dialettico costituisce l’asse centrale attorno a cui si sviluppa tutta la ricerca e la elaborazione di questo economista eterodosso, profondo conoscitore e convinto seguace di Keynes ma capace di immettere e fare interagire con il pensiero keynesiano le correnti del pensiero liberale classico e di quello socialista e marxista. A questa impostazione culturale fa capo la sua critica a quelle concezioni che appiattiscono l’economia sulla finanza e dall’andamento dei mercati finanziari fanno discendere le condizioni necessitate a cui deve sottostare il lavoro, la persona, le società. Il suo studio e la sua critica al sistema economico affermatosi nel dopoguerra nel nostro paese alimentano permanentemente la critica alla assolutizzazione del mercato e il giudizio sprezzante sugli “incappucciati” delle finanza che, nell’anonimato del mercato borsistico, agiscono e condizionano le sorti di un paese e la qualità della vita dei suoi cittadini.

Chissà cosa scriverebbe nelle sue riflessioni di riformista sul modo in cui agisce la finanza globale dei nostri giorni tristi nei quali il mercato richiede continui sacrifici umani e la politica si acconcia ad essere strumento esecutivo di tale volere.

Non credeva nel potere assoluto dello Stato ma rivendicava il suo ruolo indispensabile nell’economia per evitare lo strapotere degli interessi privati e guidare lo sviluppo del paese verso prospettive di progresso, di libertà e di uguaglianza. Giustamente attribuiva alla responsabilità della politica anche il degrado del sistema delle Partecipazioni Statali che, non a caso, sarà progressivamente smantellato da una sinistra che si autodefinisce di governo e si pone in concorrenza alla destra liberista nella “modernizzazione” del paese.

Il riformista Federico Caffè lascia un insegnamento fondamentale, i costi sociali sono anche quelli che i fallimenti del mercato privato scaricano sulla società.

La sua convinzione circa la riformabilità del capitalismo lo portava a fissare con chiarezza i termini di tale riformismo, intendeva “riforme di struttura”, quelle capaci di incidere profondamente nella struttura del capitale, anche nei rapporti di proprietà, e non solo nel rapporto tra stato e mercato. Per un verso un collegamento con le elaborazioni di Riccardo Lombardi nella fase del primo Centro-Sinistra, per un altro un richiamo forte ad economisti che, come Luigi Luzzatti, legavano le loro teorie e le loro azioni a saldi principi riformatori e solidaristici.

Non incline alle mode difendeva il merito e i meriti degli uomini e delle posizioni politiche nell’ottica dell’interesse pubblico, sociale e comunitario, anche quando il potere cercava di piegare ai propri fini tali interessi. Lo fece con chiarezza nella difesa del Governatore della Banca d’Italia Baffi e del direttore Sarcinelli rispetto alle accuse infamanti cui furono sottoposti. Lo fece con determinazione nella difesa dei lavoratori e della CGIL quando questa promosse il referendum contro il taglio della scala mobile operato dal governo Craxi con il famoso decreto di San Valentino. C’era un fondamento teorico e non solo etico nelle due prese di posizione. Nel primo caso si trattava di difendere il ruolo effettivo ed efficace della vigilanza di Bankitalia non ancora divorziata dal Tesoro e privatizzata e questo coincideva con la difesa di due limpidi e qualificati servitori dello Stato. Nel secondo caso si trattava di smentire quella teoria assurda per la quale erano i meccanismi di difesa dei salari a produrre l’inflazione e non la mancata capacità di governare i prezzi e le tariffe e regolare il mercato.

Sappiamo quanto gli costò prendere le distanze da uno dei suoi allievi più stimati, Ezio Tarantelli vittima della mostruosità della lotta armata, ma il suo rigore etico lo portò a fare parte del comitato promotore del Referendum contro quel decreto.

Quanti insegnamenti e quanto attuali mentre la politica odierna galleggia sulla comunicazione, sulla manipolazione dell’informazione e delle coscienze!

Un maestro Federico Caffè. Attraverso le sue lezioni, i suoi scritti, i suoi articoli netti e puntuali, il coraggio dell’indipendenza.

Alcuni, che si vantano di essersi formati alla sua scuola, ne hanno rinnegato le teorie e, più concretamente, il rigore morale e l’impegno culturale e sociale, hanno fatto ricche e potenti carriere ai vertici del potere finanziario dei tempi attuali. Altri, e per fortuna sono tanti, continuano a praticare ed alimentare il pensiero del maestro e ne conservano l’impianto etico.

Un pensiero ed un impianto etico volti ad impedire le storture e le derive che il capitalismo imprime sulla condizione delle persone determinando le disuguaglianze inaccettabili che segnano l’epoca in cui viviamo. Quelle disuguaglianze per le quali Federico Caffè indicava che lo Stato dovesse farsi occupatore di ultima istanza perché senza il lavoro la persona non può avere la dignità che le compete.

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