-di ANTONIO MAGLIE-
“Il commercio ha avuto effetti negativi su alcune tipologie di lavoratori e su alcune comunità”. Con queste parole il Fondo Monetario Internazionale presieduto da Christine Lagarde, il Wto, guidato da Roberto Azevedo, e la Banca Mondiale con a capo l’antropologo di origine coreana Jim Yong Kim, prendono atto del fallimento della globalizzazione selvaggia da loro colpevolmente e felicemente accompagnata e sostenuta. Sono le lacrime di coccodrillo probabilmente più indotte dall’aggressività di Donald Trump che minaccia politiche protezionistiche, che da un vero esame di coscienza. In fondo, chi si pente merita sempre comprensione. Ma non è questo il caso perché il pentimento di queste tre istituzioni arriva dopo anni che la gente soffre e dopo che per molto tempo hanno accettato, sostenuto, a volte anche sollecitato politiche che hanno messo in ginocchio paesi interi. Immaginiamo che nelle chiese ortodosse greche si spendano veramente poche preghiere a favore della signora Lagarde. Per quanto riguarda gli altri, probabilmente non vengono nemmeno presi in considerazione perché quasi nessuno ha notizia della loro presenza nel mondo.
Bisogna anche dire che alcune valutazioni sono comunque funzionali a coprire i reali problemi (o colpe), a non svelarli. Si accenna, ad esempio, poco alla mancanza di regole che hanno favorito l’arricchimento diseguale da un lato e l’impoverimento diffuso e massiccio dall’altro. Non è completamente credibile la Lagarde quando afferma che i salari sono stati compressi prevalentemente dalla tecnologia perché sa bene che dietro gli effetti negativi della tecnologia (che pure ha avuto un ruolo non secondario) c’è dell’altro e cioè l’uso che nel mondo si è fatto del vecchio, caro “esercito di riserva”. Il fordismo è passato a miglior vita da un po’ ma vale sempre la vecchia regola del suo inventore che diceva di essere piuttosto felice quando vedeva lunghe file di disoccupati davanti agli uffici di collocamento.
Così come un’altra leva efficacemente utilizzata è stata quella della delocalizzazione: “Se ti sta bene mangi questa minestra, se non ti sta bene salti dalla finestra perché io apro una filiale in un paese dove il lavoro costa meno”. La stessa invocazione di un aumento dei salari minimi è ipocrisia allo stato puro perché la scelta del salario minimo è nata anche (forse soprattutto) dalla spinta a delegittimare il sindacato e a impoverire la contrattazione (ci ha pensato anche il governo Renzi). Sono operazioni in corso da tempo e i tre nostri “amici” lo sanno bene perché da presidenti studiosi qualche testo di Stiglitz lo avranno sicuramente letto e l’economista da tempo sottolinea che la globalizzazione si è alimentata con l’abbattimento dei diritti, conseguenza dell’inaridimento della dinamica sindacale (in Italia il compianto Luciano Gallino lo ha, a sua volta, spiegato con grande passione).
Invocare un welfare più protettivo (a fronte di un sistema lavorativo sempre più flessibile) dopo aver per anni fornito copertura a quelle politiche di austerity che, al contrario, lo hanno impoverito per fare cassa, assomiglia tanto a una vera e propria presa per i fondelli: immaginiamo le crasse risate che si faranno in Grecia leggendo l’invito a favorire politiche attive del lavoro e, contemporaneamente, a creare forme di tutela per chi è temporaneamente senza occupazione contenuto nel documento firmato in calce anche dalla Lagarde. Conclusione: se la predica è parzialmente condivisibile (ma molto parzialmente), il pulpito appare totalmente privo di credibilità. I tre avrebbero una sola maniera per vestire di sincerità la loro autocritica: presentare una lettera di dimissioni dopo aver riconosciuto senza tentennamenti di aver fallito. Cosi, al contrario, la loro presa d’atto ha il sapore insopportabile di una strumentale autoassoluzione.