Poletti incompatibile con la poltrona di ministro

-di ANTONIO MAGLIE-

La pratica delle sfiducie ad personam non solo è normalmente inconcludente, ma quando, come nel caso dei pentastellati, viene replicata in continuazione, finisce per trasformarsi in un rito stanco e abusato. Sarebbe molto meglio (un segno di maturità), al contrario, utilizzare lo strumento individuale dell’etica: in sostanza, come avviene altrove su questo pianeta, quando si dice una sonora sciocchezza, si dovrebbe avvertire il dovere morale di farsi da parte. Premessa per dire una cosa semplicissima: Giuliano Poletti, ministro del lavoro, dovrebbe farsi trascinare da un eccesso di buon gusto e lasciare una poltrona che non ha certo onorato con straordinari successi.

Ovviamente, il diretto interessato ha già detto che si tratta di polemiche strumentali e ha provato a precisare. Ma spesso la toppa è anche peggio dello strappo e finisce per far emergere il dato “culturale” alla base dell’improvvida battuta. Poletti è uomo di mondo ma del mondo che gli gira attorno in questi mesi ha un po’ abusato. Sulle performances dialettiche è così spesso scivolato che risulta piuttosto difficile sostenere di essere al cospetto solo di un impenitente “gaffeur”. Perché in realtà tutto congiura per giungere alla conclusione di avere di fronte molto più semplicemente una persona inadatta o inadeguata al ruolo che prima Renzi e poi Gentiloni gli hanno assegnato.

D’altro canto, con i giovani deve avere qualche conto in sospeso. Prima ha risolto il problema della “fuga” dei tanti che inseguono il lavoro all’estero chiosando con eleganza: “Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Poi, quando il referendum sul Jobs Act proposto dalla Cgil e da un bel po’ di italiani è stato ammesso, ci ha allietato con una illuminata analisi politica: “ Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul Jobs act sarebbe rinviato”. Adesso i problemi che non è riuscito a risolvere con il Jobs Act e con la decontribuzione, li ha affidati a superiore ente sportivo: “Si creano più opportunità di lavoro giocando a calcetto che mandando in giro curricula”.

Già l’eccesso di banalizzazione del problema era evidente nella battuta. Il guaio di Poletti è che poi aggiunge sempre la precisazione: “Non ho mai sminuito il valore del curriculum e della sua utilità. Ho sottolineato l’importanza di un rapporto di fiducia che può nascere e svilupparsi anche al di fuori del contesto scolastico”. Ed è in questa seconda valutazione che emerge il riferimento culturale che lo rende incompatibile con il ruolo.

Che significa rapporto di fiducia? Il rapporto di lavoro è semplicemente caratterizzato da una prestazione a cui fa riscontro una controprestazione in danaro. Ciò che conta (o dovrebbe contare) è l’adeguatezza delle conoscenze e delle competenze rispetto al livello e alle mansioni assegnate. Certo, nelle posizioni di vertice (apicali, direbbe Poletti), la fiducia può giocare un ruolo (anche se poi, parafrasando il ministro, chi ha per decenni frequentato il mondo del lavoro si è spesso imbattuto in personaggi che riscuotevano la fiducia del datore di lavoro e che sarebbe stato meglio, per lo stesso “padrone”, “non averli tra i piedi”), ma in linea di massima dovrebbero contare le capacità.

Il concetto di fiducia tirato in ballo in maniera così generica induce a pensare che il ministro, ex manager, intenda dell’altro: acquiescenza, obbedienza cieca, totale disponibilità, subalternità assoluta al datore di lavoro sino al punto da considerare i diritti non il frutto delle norme ma la conseguenza di una generosa elargizione di chi comanda. È evidente, allora, che questa cultura poco si concilia con il ruolo di ministro del lavoro che, al di là dell’origine professionale del titolare, dovrebbe assolvere ai compiti rispettando regole di terzietà. Ma “terzo” Poletti non sembra essere con la conseguenza che per una delle due parti che dovrebbe “rassicurare” (i lavoratori) è chiaramente una controparte (da buon ex manager). L’etica consiglierebbe da parte sua un passo indietro. L’etica consiglierebbe al trasparente presidente del Consiglio, di invitarlo a farsi da parte perché se sconosciuti erano i meriti che lo hanno indotto (e prima di lui hanno indotto Renzi) a dargli i galloni di ministro, ampiamente conosciuti sono, al contrario, i demeriti che lo rendono inadeguato al ruolo.

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