-di FEDERICO MARCANGELI-
Il documento che dovrebbe essere firmato dai ventisette leader dell’Unione Europea in occasione del sessantesimo anniversario del trattato di Roma, parla di rilancio dell’integrazione e accenna al contenuto sociale che nella costruzione realizzata in questi anni è mancata. E questa assenza ha determinato una sostanziale paralisi dei processi redistributivi con la conseguente polarizzazione della ricchezza. È evidente che tutto questo richiama in maniera diretta la questione del sistema fiscale, della sua armonizzazione per evitare forme concorrenziali tra i paesi che ci sono e sono evidentissime. Giorgio Benvenuto, presidente della Fondazione Nenni, sui temi fiscali si esercita da oltre trent’anni cioè da quando, segretario generale della Uil, lanciò la prima campagna contro l’evasione (“Io pago le tasse e tu?”). Una dimestichezza della materia affinata prima al vertice del Ministero delle Finanze e poi in qualità di presidente della commissione Finanze sia alla Camera che al Senato. Un’ottima occasione per fare il punto della situazione partendo proprio dalla tassazione, cosa “bellissima” secondo Padoa-Schioppa ma a patto che abbia una funzione riequilibratrice.
Cosa si aspettava dall’Unione Europea e cos’è stata realmente nel corso degli anni?
“Prima di ogni valutazione occorre inquadrare storicamente gli eventi che hanno portato allo stato attuale. Possiamo dividere in due fasi principali il dopoguerra europeo: i primi trent’anni di crescita ed i secondi trenta di un’Europa che stenta a decollare (scricchiolando nell’ultimo periodo). E’ necessario quindi cercare di non essere retorici o superficiali, cercando invece di rispondere a questa fase di impopolarità. Partiamo dal fatto che la nascita è avvenuta con il piede sbagliato. L’Europa del dopoguerra era distrutta e fiaccata. Da una parte il blocco americano e dall’altra quello sovietico. Proprio gli USA spingono la loro “sfera di influenza” (uscita da Yalta) a fondare la “Comunità Europea di Difesa” che però muore sul nascere a causa degli attriti interni alla Francia relativi al riarmo tedesco. Una sconfitta è quindi alla base di tutto il processo d’integrazione.
Ma l’idea di unione non muore. Adenauer, Schuman e De Gasperi riprendono lo spirito del “Manifesto di Ventotene” (di Spinelli, Rossi e Colorni): non un’europa militare, ma solidale ed unita da valori ben più profondi. D’altra parte le divisioni passate avevano portato alle disastrose conseguenze delle guerre mondiali. Un ulteriore tentativo avvenne nel 1951 con la Comunità Europea del carbone e dell’acciaio. In questo caso ebbe miglior fortuna. Non molti sanno che proprio questo trattato diede un ruolo importante ai sindacati. La necessità di far rifiorire l’importante industria tedesca, doveva essere infatti conciliata con l’altrettanto importante divieto di riarmo della Germania. Sia nella seconda che nella prima guerra mondiale, proprio dai grandi capitali industriali arrivarono le risorse per gli armamenti e ciò doveva essere evitato. L’idea introdotta dagli Stati Uniti fu quella di imporre un controllo democratico delle fabbriche, ponendo i sindacati come contraltare della proprietà attraverso la cogestione. Inizialmente anche le forze sindacali videro negativamente questa soluzione, visto il tradizionale rapporto conflittuale tra i due “schieramenti”, ma poi si capì la reale potenzialità di questa forma di collaborazione. Nasce così il modello renano che è stato la forza della Germania. Un assetto che permette a tutte le forze di lavorare per il buon andamento della fabbrica, nonostante le naturali conflittualità. Arriviamo quindi nel 1957 alla Comunità Economica Europea dei Trattati di Roma. Tutto questo preambolo serve a capire un aspetto chiave: l’Europa deve poggiarsi sulla comunione della legislazione e sulla solidarietà, non sull’unione militare.
Per l’Italia questo è stato un passo importante, perché l’ha messa in contatto con realtà che avevano saputo raggiungere i diritti civili ben prima di lei. Non va trascurato anche l’aspetto economico, che certamente ha contribuito ad un miglioramento complessivo delle condizioni dei 6 stati membri. Fino agli anni ’80 l’Europa è stato un fattore di crescita. Il momento più alto è stato nel 1985 quando si allargò a Spagna e Portogallo. Una “annessione” che è stata una vittoria italiana. Più di tutti il presidente di turno della UE Craxi spinse per questa soluzione, isolando le forze ostili (principalmente il Regno Unito). L’ingresso di questi due paesi non solo bilanciò lo squilibrio Nord/Sud in Europa, ma permise l’inclusione di democrazie “giovani” (provenienti da esperienze autoritarie). Il modello Europeo comincia ad affermarsi come vincente; anche grazie a lui la spinta verso la democratizzazione dell’URSS si fa più forte, portando agli eventi del 1989. Dagli anni ‘90 questa crescita si è bloccata. Non si capì che la caduta del muro rappresentava una sfida di globalizzazione, sociale ed economica. Andando avanti questa apertura verso il mondo aumentò sempre di più, ma l’Europa perse la sua spinta. Si susseguirono vari trattati ma nessuno risultò “risolutivo”. Con l’adozione dell’euro si pensava di aver raggiunto l’obiettivo finale, di aver risolto tutti i problemi dell’Unione, ma in realtà questa doveva essere solo una tappa dell’integrazione. Essendosi fermati, lo status quo ha favorito i paesi forti. Questa “valuta travestita da marco” ha infatti tolto la flessibilità monetaria alle nazioni più deboli (Italia inclusa).
Attualmente l’Europa è bloccata. Non appare più in grado di affrontare la globalizzazione e le nuove sfide mondiali. Una Unione che non si è consolidata né ha portato a termine il processo di integrazione iniziato nel 1957. Gli stessi organi comunitari rappresentano più gli interessi dei singoli stati che quelli della collettività. A mio parere, prima di includere nuove nazioni, si sarebbero dovuti risolvere i problemi già presenti.
Gli ultimi allargamenti l’hanno resa più grande, non più forte; un gigante con i piedi d’argilla.
Occorre quindi agire seriamente per riprendere il percorso di integrazione, superando l’attendismo degli ultimi anni. Ancor di più vista la recente crescita delle forze anti-europeiste che, se non si dà una vera svolta all’Unione, rischiano di uscire vincitrici da questo scontro”.
Continuando a parlare di integrazione, la politica fiscale appare come uno dei problemi più importanti dell’ultimo periodo. La concorrenza fiscale derivante dalla disomogeneità rischia di generare una concorrenza spietata tra i vari stati, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come vede questo problema?
“L’aspetto fiscale non è ovviamente l’unico problema (ricordiamo l’assenza di una vera unità politica o di una strategia comune verso l’immigrazione), ma è uno dei principali.
La concorrenza generata dalla mancanza di omogeneità genera una “fiscalità nociva”. Ma nociva per chi? Per l’Italia ad esempio. Tutti i paesi con un debito pubblico molto alto non possono competere con i paesi più ricchi, poiché non hanno la possibilità di “giocare al ribasso” con la pressione fiscale. Non può funzionare questo meccanismo perché genera attriti tra gli stati. Non si può neanche scaricare la colpa sulle aziende o i professionisti che “fuggono” verso tassazioni più vantaggiose nell’Eurozona, visto che rientra nei loro diritti.
Se questa situazione di stagnazione permane il problema si aggraverà sempre di più.
La concorrenza fiscale non è solo sulla quantità, ma anche sulla qualità della tassazione. Noi abbiamo ad esempio un sistema tributario “arrugginito” e molto complesso (diversi soggetti che tassano, ritardi burocratici ecc). Anche la legislazione in campo economico/finanziario è spesso obsoleta rispetto alle esigenze attuali (si veda la legislazione sull’OPA).
E’ quindi necessario un passo avanti netto, per non tagliare fuori dal mercato molti paesi.
Purtroppo non sento parlare di proposte concrete al momento e questo è un vero problema.
Il fisco appare una questione dimenticata nell’agenda europea”.
Come si può superare questo ostruzionismo nei confronti dell’uniformità, portato avanti dai paesi che hanno più convenienza a non averla?
“Meno strilli nei Talk Show e più proposte concrete. Con una seria politica propositiva la soluzione si troverà. Non siamo in Europa solo per esserci, ma dobbiamo riscoprire la forza delle idee. Il ruolo della contrattazione dovrebbe tornare preponderante per risolvere questi problemi. L’Italia occupa inoltre delle posizioni chiave nelle istituzioni comunitarie (come il presidente del parlamento europeo) e deve sfruttarle per stimolare il progresso dell’integrazione”.
Concretamente quali soluzioni si prospettano per l’omogeneità?
“Io non vedo altra strada se non quella dell’uniformità raggiunta a piccoli passi. Un soluzione definitiva ed immediata non c’è, ma si devono raggiungere delle conquiste concrete nel corso del tempo. I problemi sono sotto gli occhi di tutti e non possono essere aggirati per sempre. Ci sono dei “porti franchi” in Europa che vanno scalfiti e “livellati” con gli altri paesi, in un percorso lento ma deciso”.
Come vede il futuro dell’Unione Europea?
“L’ipotesi possibile non è univoca. La prima è quella della dissoluzione. Se le forze “sovraniste” dovessero prendere troppo potere è inevitabile che l’Europa soccomberebbe. Non reggerebbe all’impatto. Proprio per tale motivo, in questa celebrazione bisognerebbe analizzare crudamente la realtà. Al momento il sentimento popolare nei confronti dell’Unione non fa presagire nulla di buono. Lo scenario della disgregazione è quindi concreto e va combattuto. La strategia attuale sembra essere molto attendista a riguardo. L’aspettare e far “passare la nottata”, sperando nella sconfitta delle forze ostili, non è però una soluzione efficace. Questo è frutto di un paese (e di un continente) che invecchia tentando di autoconservarsi senza rischiare delle riforme strutturali. L’altro scenario è quello della “speranza”. Bisogna avere fermo l’obiettivo dell’europa, avendo però proposte e idee. Non si deve puntare a rivoluzionare il sistema, ma a migliorarlo con delle riforme realistiche ed efficaci. Per fare questo si deve partire dal “basso” (nell’accezione migliore del termine). Bisogna ascoltare le paure e le necessità della popolazione, rendendola nuovamente partecipe dell’Europa e spazzando via il “disincanto”. Per fare ciò sono necessari i corpi intermedi (come i sindacati), perché riescono a creare una sintesi tra le frange contrapposte della società. Questi corpi possono essere anche “scomodi”, ma sono necessari per ricucire le spaccature socio-politiche attuali, sconfiggendo i populismi. Per superare questa impasse europea bisogna quindi compattare tutte le forze in gioco e governare insieme.
La società deve tornare al centro del progetto, così da far riscoprire il sentimento europeo perduto. La vera chiave è quindi quella di un ritorno alla condivisione, superando questa fase con il tempo necessario; citando un proverbio africano: “Se vuoi andare veloce,vai da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme”.