-di ANTONIO MAGLIE-
Nel giorno in cui la Uil compie il suo sessantasettesimo compleanno, c’è una frase che rimbalza attraverso le agenzie e che dà il senso della trasformazione da cui bisogna necessariamente partire per non fermarsi alla contemplazione del passato, per quanto grande possa essere stato, ma per provare a immaginare i contorni di un futuro che ai più sfugge. Dice la frase: “La globalizzazione economica è nell’interesse fondamentale di tutti i Paesi”. Non l’ha pronunciata Donald Trump (che in questo momento, quantomeno a livello formale, sostiene cose diverse) né qualche altro “campione” del capitalismo, ma Li Keqiang aprendo a Pechino i lavori del dodicesimo Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese. Quando la Uil nacque, il 5 marzo del 1950, Mao Tse Tung stava consolidando il suo potere e avviando una collettivizzazione forzata che nel giro di un paio di anni portò allo sterminio di un numero elevatissimo e perciò imprecisato di grandi proprietari terrieri e di piccoli contadini che coltivavano il proprio fazzoletto di terra. Ma il “padre” della Repubblica Popolare voleva eliminare qualsiasi residuo di capitalismo. Oggi, i suoi nipoti con questo capitalismo fondato su una gestione autoritaria e centralizzata del potere e la distribuzione con un avarissimo contagocce di diritti civili e di libertà, alimentano una crescita che seppur lo scorso anno meno entusiasmante del recentissimo passato, ha comunque fatto segnare un più 6,5 per cento.
Di solito in occasione dei compleanni si stilano i bilanci, cioè si guarda al passato. Ma è evidente che questo esercizio, per quanto rassicurante, non è più consentito da tempi che, probabilmente, sono molto meno liquidi di quel che sosteneva Zygmunt Bauman essendo diventati estremamente pesanti e quindi solidi. Il riferimento al passato può tornare utile se serve a ritrovare il coraggio pionieristico, la lucida follia dei momenti difficili quando tutto sembrava impossibile, la sfrontatezza che ha accompagnato le imprese ritenute in partenza impossibili. Se, al contrario, scade nella ritualità, finisce soltanto per allontanarci da una realtà che pone interrogativi a cui nessuno oggi sembra in grado di rispondere, un po’ perché estremamente complessi e un po’ per una crisi di leadership che attraversa tutto il mondo sviluppato. In questi tempi solidi e non liquidi si fatica a “sognare” e sembrano vincere solo coloro che propongono “visioni” negative. Invece, allora di ripiegare sul passato con il contorno di un’improduttiva nostalgia, molto meglio provare a misurarsi con il futuro.
Oggi il sindacato si confronta con una realtà profondamente trasformata e con la quale, bisogna dirlo con franchezza, a volte fatica a sintonizzarsi forse perché essendosi schiacciato sulla rassicurante gestione quotidiana, ha finito per isolarsi dal mondo circostante: guarda molto dentro di sé ma così facendo lascia anche molto fuori di sé. La nascita della Uil fu il prodotto di una fase storica, di equilibri nazionali e, soprattutto, internazionali che non esistono più. Il confronto probabilmente continua ancora ad essere tra Est e Ovest ma ora non riguarda più i sistemi politici ma quelli religiosi anche perché in aree sempre più vaste dell’Asia e dell’Africa oggi la “fede” svolge lo stesso ruolo di ideologie cadute in disgrazia a causa della condanna che la storia ha loro inflitto. I tempi belli dei grandi agglomerati produttivi in cui masse enormi di lavoratori si ritrovavano quotidianamente riconoscendosi “alla voce” come una comunità di destino sono state sostituite dalla polverizzazione dei lavori e dei luoghi di lavoro grazie a una tecnologia che ci avvicina ma non ci integra, ci consente di comunicare continuamente a distanza ma non di confrontarci a viso aperto, che ha fatto prevalere nella narrazione collettiva della nostra esistenza la versione scritta (il più delle volte mal scritta) cancellando quella orale. Difficile in questo modo definire il perimetro delle nuove comunità di destino, che pure ci sono ma che non solo non riescono a costruire collegamenti dialoganti, ma finiscono addirittura, nella vocazione rabbiosa alimentata dai social, per costruire fratture che non avrebbero motivo di esistere. Più che tra simili, ci si aggrega tra identici e la mancanza di dialettica determina fenomeni di esclusione (non è un caso che il razzismo, pur dalla vox populi negato, garantisca a livello politico notevoli consensi. Ovunque).
In presenza di partiti anchilosati dalla logica del consenso (assistiamo a sindaci del Pd che a livello di immigrati sembrano la brutta copia di quelli della Lega), il sindacato avrebbe gli spazi per abbattere queste logiche, per cercare un linguaggio comune partendo dalla consapevolezza che la quarta rivoluzione industriale avrà bisogno di un livello più alto di elaborazione, perché la tecnologia renderà sempre più agevole la compressione di tutele, dando così sostegno a quella globalizzazione (nella sua forma malata, cioè che esclude un aspetto fondamentale del globale: il sociale) che il capo del governo cinese insegue con la determinazione di chi sui mercati ha trionfato proprio negando i diritti (e mandando i carri armati contro chi ha provato a rivendicarli). Occorre un sindacato che non abbia paura di osare, che apra le sue porte, che esca dai suoi santuari e torni a consumare le suole delle scarpe nei posti di lavoro, per la strada, ovunque si possano creare forme vere e nuove di democrazia partecipata (non quella fasulla, ridicola e surrogata del “clic”). Occorre un sindacato che torni a guardare fuori si sé evitando di concentrarsi nella osservazione del proprio ombelico.
Ottimo Antonio!