Pd: l’inevitabile crepuscolo della “fusione fredda”

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-di ANTONIO MAGLIE-

Il declino della “fusione fredda”. In questi giorni di passione, il Pd sembra aver aggiunto altri tasselli all’ipotesi della scissione. Nel centenario della rivoluzione di Ottobre, difficile sottrarsi alla suggestione che produce il ricordo del “divorzio” che si celebrò a Livorno nel 1921, proprio sull’onda di quello che era avvenuto in Russia, con Lenin che lanciava anatemi contro i socialisti riformisti e Antonio Gramsci che accusava Turati, Modigliani e Buozzi di essere solo dei “Mandarini”. La comunicazione vive di suggestioni ma il riferimento storico non ha evidentemente senso. Intanto perché in quel caso c’era un evento epocale (per quanto i suoi esiti siano stati fallimentari e tragici) che spingeva versa quella evoluzione; in secondo luogo perché quella era una scissione che riguardava un partito “propriamente” e complessivamente di sinistra: con numerose anime, ma di sinistra, con un riferimento ideologico unitario per quanto in alcuni settori reinterpretato alla luce delle tesi revisionistiche di Bernstein.

In questi anni, al contrario, avvenimenti epocali ne abbiamo visti pochi, né siamo stati spettatori dell’alba di nuove ideologie: vivacchiamo sul presente, quasi dimentichi del passato e intimoriti dal futuro. Poi difficile parlare di partito di sinistra essendo il Pd, per dichiarazione all’atto di nascita, una forza politica di centrosinistra (senza trattino, perché l’alleanza che così venne qualificata negli anni Sessanta non solo aveva il trattino ma anche un diverso spessore riformistico come ha sottolineato Gaetano Arfè negli ultimi anni della sua vita). Non era stato l’incontro tra due visioni del mondo che facevano capo allo stesso complesso di valori, che avevano un codice genetico se non uguale almeno simile; erano divisi alla nascita pur puntando a una complicata unificazione di linguaggi e sensibilità. L’impressione è che il vero collante fosse il potere, la conquista del Palazzo, non tanto d’Inverno quanto di pasoliniana memoria.

Era, quel partito, la reinterpretazione in sedicesimo del berlinguerismo: il compromesso che da momento storico veniva declassato a semplice fatto di cronaca. Aveva ben poco fondamento reale la retorica dei due riformismi che si incontravano (strano incontro, poi, visto che quelli che avevano alle spalle una vera tradizione riformistica, cioè i socialisti, venivano in larga misura emarginati, degradati a ospiti minori, come certi adolescenti che nelle feste degli anni Sessanta e Settanta venivano invitati solo per fare, come si diceva, “tappezzeria”). In Germania Spd e Csu-Cdu fanno la grande coalizione non un “grande” partito e stando insieme finiscono per danneggiarsi (soprattutto i socialdemocratici). Difficile coniugare in economia, ad esempio, una vocazione ordoliberista con una schiettamente socialdemocratica e riformistica; difficile coniugare a livello ideologico l’interclassimo cattolico (che parte dalla Rerum Novarum) e democristiano con una visione laica e inevitabilmente classista (le classi esistono ancora: non sono quelle illustrate magistralmente negli anni Settanta da Paolo Sylos Labini, ma esistono) della dinamica sociale.

La fusione fredda ha dato forza attrattiva all’area più moderata che riesce a collegare trasversalmente settori diversi della società (gli stessi equilibri all’interno del Pd sono una conferma perché Dario Franceschini non sembra essere il figlio italiano di Willy Brandt) e, semmai, a sfruttare la crisi del berlusconismo (cioè la vocazione tutta nostrana di consegnarci all’abbraccio di una “mamma Dc”), ma ha tarpato le ali a quelle forze che proprio in un momento di crisi economica avrebbero dovuto raccogliere consensi nelle aree più impoverite, insoddisfatte e preoccupate (al contrario hanno sofferto la concorrenza dei messaggi demagogici della Lega e del Movimento 5 stelle).

La “fusione fredda” non poteva reggere e non sta reggendo: non aveva un’anima, non aveva un indirizzo culturale, non aveva una dimensione sociale, era solo l’abbraccio utilitaristico di mondi che nella dinamica politica potevano anche sfiorarsi (attraverso le coalizioni di governo) ma mai integrarsi perché poi se alcuni in quel partito possono guardare con soddisfazione all’alleanza con Angelino Alfano e, semmai, con Verdini, tanti altri non riescono a considerare “nemici” Scotto, Vendola e Landini. La vecchia Dc era un parlamento nel parlamento: aveva la destra, la sinistra e il centro ma poi aveva un riferimento religioso (quindi fortemente ideologico) che teneva insieme tutti (non a caso è stata sconfitta oltre che da tangentopoli dalla secolarizzazione della Chiesa che ha brillantemente applicato in politica la teoria dei “due forni” di Andreotti provvedendo anche a qualche evangelica moltiplicazione dei panettieri). Ma nessun “filo rosso” all’interno del Pd riesce a tenere insieme storie diverse. Nel partito e anche nel suo elettorato.

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