-di CESARE MILANESE-
Giuseppe Tamburrano, mesi or sono, in questa stessa rubrica, aveva posto un quesito: o meglio, un interrogativo sul senso politico e storico da dover dare al fenomeno della cosiddetta Primavera Araba. (O Primavere Arabe che dir si voglia, dal momento che ogni Paese, a regime prevalentemente islamico, sembrò, fino a poco tempo fa aver avuto la fioritura di una propria primavera di democrazia). Così sembrò.Tamburrano, giustamente, se ne dichiarava perplesso, constatando che là, in questi Paesi, stava, invece, accendo qualcosa, che la logica della politica normale e usuale democratica stenta a classificare come propria.La domanda di Tamburrano, più che opportuna, resta tuttavia senza una vera risposta, per l’appunto, politica, per come la politica è intesa nell’ambito della democrazia riconosciuta come tale. Nei decenni passati, quelli dalla Guerra Fredda in poi, ai sommovimenti che accadevano nell’area dei Paesi afro – mediorientali, dall’Algeria a tutto il Medioriente (e oltre), infatti, veniva di volta in volta attribuita una propensione, quasi da rivoluzione, orientata in senso anticapitalista. Vi s’imposero, di fatto, regimi che si dichiaravano perfino socialisti, comunque sia dichiaratamente antioccidentali, sulla scia argomentativa dei movimenti comunisti, allora in auge, sparsi per tutto il mondo. In realtà erano, invece, tutt’altra cosa, come i fatti che seguirono ben dimostrarono, soprattutto con la comparsa in scena del fenomeno centrale, dottrinario e pratico, del mondo islamico, sul finire del secolo scorso, rappresentato dalla “rivoluzione involutiva” che ha trovato nel fondamentalismo di Khomeini la sua via maestra. Ed è inutile star qui a dilungarsi sul resto, sia quello che è avvenuto prima di Khomeini, sia quello che è avvenuto dopo Khomeini, su un’ampia arcata di tempo, da Nasser a Saddam: guerre da sei giorni, o sei anni, o sessant’anni, che siano. La seconda metà del Secolo Ventesimo e il primo quarto (per ora) del Secolo XXI sono tutta un’enciclopedia dei conflitti di quei Paesi là: conflitti ai quali, chissà perché, recentemente si è dato il nome pacificante, benevolente e rassicurante di “Primavere”.
Si dirà: perché prenderla tanto alla larga? Per la semplice ragione che le ragioni decidenti e dirimenti di quella realtà geopolitica hanno, per l’appunto, una matrice quanto mai larga (da “conflitto di civiltà”, direbbe Samuel Huntington). Ebbene, sia pure su posizioni diverse da quelle di Huntington, Luciano Pellicani, che muove invece dal “classico” Arnold Toynbee, concorda sul fatto che lo scontro a livello di “Culture” sta all’origine di un insieme di conflittualità generali e globali e le include tutte.
Nel caso specialissimo del conflitto “di civiltà” in corso, dovuto alla reattività del mondo islamico, Pellicani è intervenuto con uno studio esemplarmente riassuntivo di tutta la natura della questione. S’intitola Jihad: le radici, dove in sintesi, Pellicani, sulla scorta della teorizzazione storica di Toynbee (pensatore del XIX secolo, quindi ultrapreveggente), diagnostica i rivolgimenti attuali del mondo islamico quali conseguenze dirette e indirette dell’irruzione della modernità. Un’irruzione sempre e comunque dirompente, nei confronti della quale la cultura islamica, investita da essa reagisce con una violenza che intenderebbe essere corrispondente, in termini di radicalità e di violenza. Le “radici” di tale conflittualità, direbbe Pellicani, sono queste.
Spiegazione, per così dire, canonica, quella di Pellicani, il quale, infatti, individua questa matrice culturale della conflittualità tra mondo occidentale e mondo islamico come matrice anche della conflittualità culturale interna allo stesso mondo occidentale: tra “amici e nemici della modernità”. Anche l’Occidente, di norma modernizzato e democratizzato, alberga il conflitto tra le ragioni della “progressività” della modernità e le ragioni contrapposte dell’avversione alla modernità, tra razionalità e dogmaticità (non soltanto teologica, ma anche ideologica sedicente laica). In altre parole, tra concezione di una società aperta e concezioni di una società chiusa. L’Occidente, per quanto progredito e democratizzato, non è per niente immune da concezioni, che pur dichiarandosi progressiste e democratiche, hanno per prospettiva una società chiusa. E in questo il mondo islamico non è che il vicino di casa alquanto più attardato. Ma la questione che spiega entrambi i tipi di conflittualità sostanzialmente è questa.
Ebbene, la spiegazione elaborata da Pellicani, considerata nel suo insieme, potrebbe, forse, essere bastante per fornire a Tamburrano la spiegazione d’insieme. Anche se Tamburrano questa spiegazione se l’era già data da sé, mentre ciò che egli considera importante è una spiegazione più pratica, nel senso della politica concreta su cui poter orientare subito un giudizio di valore, per l’appunto politico, in modo da rendere possibile, di conseguenza, un giudizio di assenso o di dissenso a portata di un’azione politica immediata.
Tamburrano, ovviamente, dal suo punto di vista, ha pienamente ragione, ma, per il momento, l’unica spiegazione possibile alla sua richiesta, è quella fornita da Pellicani in termini generali, storico-storicistici, verrebbe da dire, proprio perché essendo soprattutto teorici, si preoccupano di una sola cosa principale: andare “alle radici”.
“Andare alle radici”, sembra essere il motto di metodo di Pellicani. Andare alle radici, cioè risalire ai principi fondativi, non solo può spiegare molto, può spiegare tutto. Una volta spiegato che la jihad sta alla radice della conflittualità, esterna e interna, dell’Islam, con il resto del mondo e con se stesso, Pellicani individua, per quanto riguarda l’Occidente che la matrice delle conflittualità di questo, sia esterne e sia interne (ma soprattutto interne) è dovuta alla presenza-persistenza in esso di “culture” avverse alla modernità come tale.
E si noti, queste culture avverse alla modernità in seno all’Occidente sono culture omologhe a quella del fondamentalismo islamico, il quale, infatti, storicamente e dottrinariamente deriva dal dogmatismo di quelle, che tuttora sono prevalenti o preminenti nel mondo occidentale: nella fattispecie, principalmente le religioni del libro, definite generalmente come le “radici giudaico-cristiane” dell’Occidente stesso.
Ebbene, Pellicani rovescia interamente il quadro interpretativo, individuando semmai nelle culture che precedono le elaborazioni giudaico-cristiane, la vera matrice della cultura e dello spirito della modernità e dell’Occidente nel suo complesso. Ci sono, quindi, delle radici che vengono prima di queste radici aggiunte dai dogmatismi successivi. Pellicani definisce queste radici originarie e autentiche come “radici pagane”. E lo dimostra in tutti i suoi libri sull’argomento; e addirittura esplicitamente in due libri particolari a cominciare dal titolo: Le radici pagane dell’Europa e Le radici pagane della Costituzione americana. Quest’ultimo, recentissimo.
Possiamo definirli libri che affrontano la questione cruciale, ma non evidenziata, come si dovrebbe, di ciò che si potrebbe definire l’Islam di casa, non riconosciuto come tale?
Cesare Milanese