La barca è piena! Brevi note sull’inevitabile degrado politico e culturale della società italiana

di Maurizio Fantoni Minnella

…Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata. Sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine d’anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura o insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.

Albert Camus, da La peste

  1. Quando, all’indomani della caduta del Muro di Berlino e successivamente dell’Unione Sovietica, andò profilandosi, secondo la sciagurata teoria del politologo americano Francis Fukuyama, in seguito smentita dallo stesso, uno scenario mondiale secondo cui sarebbe stata contemplata la cosiddetta “finis historiae”, dal momento che, venendo meno il secolare conflitto tra democrazia e totalitarismo, tra stato liberale e società socialista, ma soprattutto, tra due economie, quella capitalista e quella comunista, e infine, con la definitiva vittoria della prima, non ci sarebbero più state ragioni sufficienti capaci di generare nuovi conflitti armati. Evidentemente Fukuyama si sbagliava, come ci ha insegnato la storia più recente e la stessa cronaca del nuovo conflitto in atto non più tra Russia e Ucraina ma tra Europa-Nato e Russia, con gli Stati Uniti in un ruolo strategico, ormai giunta sull’orlo di un vero conflitto mondiale, per non parlare poi delle guerre in Medio Oriente in cui si sono in parte giocati i destini di due delle principali potenze mondiali, ossia Russia e Stati Uniti, la guerra in Iraq e quella più recente in Siria, il conflitto israelo-palestinese, in tutta la sua secolare e al tempo stesso tragica attualità, per non parlare di un altro conflitto in atto, quello tra governo turco e minoranze curde che coinvolge almeno quattro paesi quanti sono le “entità” di un possibile, forse utopico stato curdo. Dunque, la storia è viva e purtroppo non lotta insieme a noi ma contro di noi, ossia in direzione contraria rispetto alla pace. In seguito, l’idea che il rispetto, l’accondiscendenza e l’appiattimento sulle politiche neo-liberiste avrebbe consentito la risoluzione dei problemi dell’occupazione e finanche della fame, mediante l’accumulo di beni nelle mani di sempre meno soggetti (privati o societari), si è col tempo trasformata in mainstream riconosciuto e condiviso perfino da quelle forze politiche di sinistra per origine e vocazione impegnate nella lotta per i diritti delle classi più deboli (oggi invece, diremmo dei soggetti…). Non si è voluto, oppure si è finto di non comprendere che dal conflitto ideologico tra i due blocchi, originato con la Guerra Fredda, si sarebbe passati, per uno storico effetto di ritorno, ad un conflitto nazionalistico e neo-imperialista tra vecchi imperi, quello russo e quello statunitense. In quest’ultimo, ad esempio, la “rilettura-riscrittura della storia dal punto di vista dei vincitori, praticata sui nuovi testi scolastici, prevede omissioni di date e fatti storici ormai compromettenti: per cancellare il senso di colpa degli americani per il genocidio dei nativi, si dichiara che non vi è stato alcun genocidio. Che gli indiani, in fondo, non erano più crudeli dei bianchi, anzi, in taluni casi lo erano perfino di più!… Mezzo secolo di antropologia culturale, ovvero delle ragioni e della dignità degli “altri”, gettati al vento. Trionfa, per così dire, l’idea della guerra giusta, portatrice di democrazia e progresso. Sterminare per purificare e rieducare! Se lo si è fatto per i cosiddetti “selvaggi”, perché non si dovrebbe farlo, ovviamente con altri mezzi, con i cittadini di un paese avanzato, se è possibile trasformarli in massa consenziente? Ciò che, in fondo, vediamo già in atto negli Stati Uniti d’America, potrebbe esserlo anche in Europa.
  2.  In Italia, con la netta vittoria delle destre le cui cause sono peraltro note a tutti, ci si sta preparando, invece, a completare una metamorfosi (che tranquillamente potremmo chiamare deriva), di natura complessa, ossia sociale, politica e culturale, in prospettiva di una rivoluzione politica che non avrà certo i connotati illiberali del fascismo storico ma quelli più civili ed europei di una repubblica presidenziale declinata però all’italiana, com’era, del resto, nei progetti del golpista monarchico ed ex partigiano bianco Edgardo Sogno. Questa sarebbe la sola opzione rimasta alla destra post-fascista oggi al governo del paese, per imporre la propria politica in modo definitivo e autoritario, senza dover ricorrere in maniera diretta ai simboli e alle modalità del fascismo storico, del quale peraltro, è cresciuto, negli anni, una sorta di tacito consenso. Democrazia autoritaria, la chiamano, o “democratura” come ebbe a definirla Viktor Orban, la faccia oscura della democrazia liberale, più che un ossimoro, una realtà in atto come testimoniano paesi dell’ex blocco comunista, come Russia, Polonia, Ucraina e Ungheria. Ma per poter realizzare un progetto di una simile portata, è necessario, innanzitutto, preparare le masse di cittadini e di elettori partendo da una serie di trasformazioni in seno alla classe media, da sempre asse d’equilibrio degli assetti sociali, procedendo progressivamente al suo impoverimento economico e culturale, allargando così la forbice tra questa classe sociale (ci permettiamo di chiamarla ancora così) e le ristrette elites economiche. Quanto alla classe lavoratrice operaia, già decimata nel corso degli ultimi decenni, e privata dell’ideologia e dei partiti politici di riferimento, la vediamo sempre più orientarsi verso una deriva populista nell’accettazione passiva delle ragioni dei padroni (privati o società), che tradotte in termini concreti, significa sottomissione alle regole del nuovo mercato del lavoro. Oppure rifugiandosi nel privato, nell’indifferenza e in quella forma di individualismo di massa da cui è più facile, da parte del potere vigente, ottenere il consenso. Dove sono finiti la dignità e l’orgoglio dei lavoratori in una società come quella in cui viviamo che pretende di regredire ai tempi dell’elogio del padrone da cui tutto dipende, ovvero, economia e vite umane?! Sembra essersi scatenato un diluvio sul secolo passato, e in particolare in quegli anni sessanta e settanta che oggi sembrano lontanissimi proprio in virtù del tentativo sistematico di cancellarne l’identità che è fatta di uomini, donne, idee ed anche di opere. Dalla demolizione sistematica dell’idea comunista (confondendo ad hoc la teoria con la prassi), in tutte le sue declinazioni, a partire da quella bolscevica fino a quella terzomondista e perfino a quella italiana berlingueriana, quando si legge, ad esempio, che se i comunisti italiani fossero andati al potere avremmo avuto in Italia una dittatura rossa o perfino quando, al contrario, si afferma che i comunisti avrebbero governato l’Italia per diversi decenni e per fortuna sono stati cancellati dal voto democratico, fino al processo di revisionismo della Resistenza, avviato già negli anni ’50 e ripreso con successo negli anni ’90. Partigiani e fascisti messi sul medesimo piano per una falsa idea di pacificazione nazionale e al contempo, di riabilitazione, sia pur cauta del Fascismo. Tuttavia è proprio nella cultura che la trasformazione appare più radicale, anche più difficile cogliere nella sua vera essenza.
  3. In quanto appartenente alla classe media acculturata, la figura del critico militante e più ancora quella dell’intellettuale sono state le prime a subire una sorta di “processo a porte aperte” dove, nello stabilire nuove regole del mercato, si è potuto facilmente ricorrere alla loro demonizzazione, adducendo la vecchia, logora tesi del radicalismo chic, tanto cara alla destra di sempre, (1) in cui identificare tali figure, anziché, magari sviluppare una più seria analisi critica (2). Esse farebbero parte di una tradizione, tutto sommato abbastanza estranea alla cultura italiana, arroccata tradizionalmente su posizioni filo-accademiche, quindi la loro esistenza verrebbe collegata all’idea di egemonia culturale comunista o comunque di sinistra, manifestatasi nel cosiddetto “ventennio rosso”, quello in cui veramente la cultura provò a uscire dalle accademie, a parlare alle persone, ai giovani, nelle assemblee, per le strade o nei circoli culturali. Perché il mercato abbia mani completamente libere nella circolazione del prodotto culturale mainstream (per tutti o quasi), è necessario che il critico militante, con i suoi distinguo e le sue scelte di valore e di merito (doverose se si vuole ancora parlare di arte o di letteratura), nel mentre, invece, si giubila alla meritocrazia in ambito universitario accademico, dove peraltro vengono rivalutati potere e prestigio del cosiddetto baronato e insieme alla figura del grande docente (che non è, forse, un intellettuale anche lui?…), si faccia da parte il più velocemente possibile a vantaggio del cosiddetto giornalismo culturale del consenso, mentre all’intellettuale toccherebbe il ruolo più subdolo, ossia di colui che incarnerebbe quella stessa egemonia, manifestatasi nel binomio di politica-cultura; ovvero la politica come cultura e la cultura come politica, quando sappiamo che è stato il formarsi di una coscienza critica anche attraverso una coscienza antifascista e antiautoritaria che si è giunti alla formazione di una tradizione o se si preferisce, di una generazione di intellettuali. Se volgiamo uno sguardo analitico allo stato attuale del pensiero critico sulla letteratura, sul cinema e finanche sulla musica, non possiamo che riscontrare un medesimo disegno compiuto scientemente a tavolino: riduzione a quasi zero del tasso di letterarietà (mortale per le nuove masse e conseguentemente per le nuove regole mercantili) nell’arte del romanzo sostituita con la sedicente arte nel confezionare gialli e noir in ogni angolo di mondo, al limite della consunzione e della noia. Che dovremmo ben presto superare con una colata di gelatina fantasy per i millennial che dovranno prima o poi imparare a leggere libri cartacei e infine, per coloro che forse credono di odiare la realtà nascondendosi in brumosi nuovi Valhalla, convinti che la fantasia sia tutto, quasi più vera della vita stessa. Semplificazione del pensiero critico, ormai divenuto appannaggio dei soli filosofi (o quanti siano degni di tale ruolo). Derubricare il cinema come cultura e come educazione, il neorealismo, il cinema d’autore, quello d’avanguardia (ecco un altro termine di sicura abolizione in quanto elitario e insieme rivoluzionario, come roba del passato, di un passato che “per fortuna non ritornerà tanto presto”). Al suo posto, ecco venire avanti, grazie all’impegno di critici ringalluzziti di destra e di sinistra (da Veltroni agli allegri “camerati” di Nocturno), il cinema di genere, quello declinabile dalla B alla Z, quello che piace, quello che vendeeeeee. Ridurre la musica a mera canzonetta canticchiabile, pure il rock che un tempo (guarda caso in quel ventennio), fu grande. Rimettere la musica classica e la letteratura musicale che ne deriva, a un pugno di soliti snob invecchiati magari in solitudine e quella novecentesca e contemporanea a piccole schiere di fieri autistici che come vampiri hanno scambiato il giorno per la notte, il silenzio, il rumore e la dissonanza per soave musica. E tutto ciò dovrà ottenere il pieno consenso di tutti, dall’insegnante, alla casalinga, al giornalista all’intellettuale che si appresta a diventare questa volta servo di un nuovo regime politico delle idee. Finalmente il golpe cultural-politico atto a rovesciare il ventennio rosso e i suoi artefici sarà compiuto e finalmente conoscerà i suoi nuovi padroni nella stampa come nell’editoria e nelle università dove la produzione di “eccellenze” esige che nella rincorsa verso il traguardo vi siano darwinianamente degli scarti con inclinazioni al suicidio!…Ma andando ancora più a fondo, se volessimo analizzare la percezione collettiva dell’espressione erotica nel cinema e nei media, dovremmo tristemente concludere di essere ripiombati in un clima di neo-puritanesimo vittoriano, pre-anni sessanta, pre-referendaria e pre-radicale, se vogliamo, dove verrebbe riaffermata la tendenza a rinchiudere tale espressione naturale del corpo e del desiderio nell’intimità del privato come proprietà, a vantaggio, non soltanto del più solido e sicuro mercato della pornografia, ma di una deriva voyeuristica che non vedevamo quasi dai tempi delle nostre nonne e di cui youtube si fatto orgogliosamente interprete applicando una censura preventiva, poi messa in pratica dai propositori di contenuti, a dir poco vergognosa, anche peggiore di quella democristiana, perché negli anni settanta almeno si osava e si osava ancora pur sapendo di venire censurati rischiando in prima persona, come capitava ai Pasolini, ai Bertolucci ma anche a solidi artigiani e mestieranti del cinema di serie B.
  4. E per chiudere in bellezza questa rassegna di amenità, come non accorgersi di come questa classe media sia precipitosamente decaduta anche nell’abito, nella maniera di vestire?! Perché, ad esempio, si eliminano soprabiti, cappotti e impermeabili eleganti a favore di anonimi giubbotti? Perchè si dovrebbero indossare calzature incongrue, inneggianti lo sport anche fuori da qualsiasi contesto sportivo. Per i loro costi ridotti o per i loro costi elevati? O forse perchè lo sport (ma ci toccherà, allora, nominarlo con deferenza e con la esse maiuscola) è la vera e sola metafora della competizione sociale, unica verità a cui dovremmo, auspicabilmente, riuscire a sottrarci?

Note

  1. Tom Wolfe, Lo chic radicale, Rusconi editore, Milano 1973
  2. Ellemire Zolla, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani editore, Milano 1964

N°103 del 07/03/2023

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