-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Pietro Citati ci ha lasciato un mese fa.
La notizia mi ha molto rattristato. Conoscevo Citati da quando avevo 22 anni, ed ero un imberbe studente universitario alle prime armi col mondo del giornalismo letterario.
Nell’Autunno del 2005 ricordo che per i Meridiani Mondadori uscì La civiltà letteraria europea, dove vennero raccolti i saggi migliori che Citati scrisse nell’arco di una lunghissima carriera.
All’epoca collaboravo con un sito che si chiamava Italialibri. Credo non esista nemmeno più.
Chiamai Citati per chiedergli di poterlo intervistare. E lui accettò immediatamente. Cosa che mi stupì, essendo noto il suo carattere severo e duro: un misto di rigore, riservatezza, aristocrazia di altri tempi.
Quando andai a casa sua, dove riceveva di solito, mi fece accomodare in un salotto dall’arredamento sobrio ma elegante. Mi sedetti su un divano, lui accanto a me, e iniziammo a parlare. Indossava un bellissimo maglione rosso con sotto una camicia bianca ed una cravatta blu scuro.
Citati si mostrò subito affabile, generoso. Ma, soprattutto, un narratore come pochi mi è capitato di incontrare in vita mia.
Ogni domanda che gli facevo era l’occasione per ricordare un aneddoto, un fatto che coinvolse qualche suo amico scrittore. Nelle sue parole non vi era ombra di spiegazione né di pedanteria. Tutto si scioglieva in un racconto bellissimo, qui e lì condito con quel piglio di fantasia che non guasta e che rende la parola una presenza viva nella vita dell’uomo, ricordandogli che un cuore si nutre soprattutto di quelle frasi e di quei racconti donati con generosità e purezza, senza altro fine tranne quello di trasmettere felicità.
Fu l’inizio di una frequentazione che è durata per diciassette anni.
Dei tanti ricordi che conservo, uno in particolare mi è caro: la libertà e la sincerità che in Pietro Citati andavano di pari passo ed erano esercitati senza ombra di retorica, tanto nella vita quanto nel suo lavoro di critico.
Ricordo che una volta lo accompagnai a Firenze perché al Gabinetto Viesseux doveva presentare il suo Leopardi. Eravamo in treno, e al ritorno, essendo ora di cena, decidemmo di mangiare qualcosa. Ordinammo una lasagna.
Appena Citati ne mangiò un boccone, fece una piccola smorfia di disgusto. Effettivamente era immangiabile, tanto che sia io che lui la lasciammo quasi intera.
Quando venne il cameriere a riprendere i piatti e chiese se ci fosse piaciuta, Citati gli rispose: “Era terribile”. Lo fece con spontaneità e una leggerezza che mi lasciarono sorpreso.
Evidentemente dovevo avere sul viso un’espressione che non sfuggì a Citati; tanto che mi chiese: “Che succede mio caro”?
“Temo che quel signore ci sia rimasto male di quello che ha detto Professore”.
“E perché mai? Non l’ha mica cucinata lui. E poi ho detto la verità”.
Questo era Citati.
Ma un altro episodio forse è ancora più significativo.
Quando lo intervistai per l’uscita de La malattia dell’infinito, un bellissimo volume che raccoglieva saggi sulla letteratura del Novecento, gli chiesi quali autori del secolo scorso proprio non gli piacevano.
“Mi faccia dei nomi”, mi disse.
Tra i tanti, gli feci quello di Oriana Fallaci.
“La Fallaci non è una scrittrice. È una pattumiera”.
Quando dalla redazione della testata con cui collaboravo lessero questa dichiarazione, mi chiesero di dire a Citati di addolcire il giudizio sulla Fallaci.
“E perché? – mi rispose quando glielo riferii – È quello che sento e non intendo cambiarlo di una virgola”.
L’intervista uscì così come trascritta.
Di Citati oggi mi mancano soprattutto quelle telefonate che gli facevo spesso per salutarlo. Erano brevi, sbrigative. Non amava stare al telefono.
Quando rispondeva subito mi diceva: “Mi venga a trovare domani o dopodomani”.
E l’indomani, o quando era, ci si incontrava.
E per due ore, un pomeriggio ogni due settimane più o meno, per quindici lunghi anni, ho avuto la fortuna e l’onore di ascoltare dalla voce di Citati aneddoti su Calvino, Ceronetti, Gadda, Zolla, Parise, Bassani, Del Giudice, Fruttero e Lucentini, Manganelli e Fellini e chissà quanti altri che ora non ricordo.
Citati era un conversatore divertentissimo, ironico, istrionico come un grande attore.
Da qualche tempo il suo telefono di casa era staccato. Provavo e riprovavo sperando in un guasto alla linea.
Una volta tentai di chiamarlo anche a Roccamare, dove trascorreva le estati in una casa immersa in una bellissima pineta. Ma anche quella linea risultava staccata.
Immaginavo, sentivo che qualcosa di brutto stava per accadere.
Un mese fa, un mio amico mi avvertì della sua scomparsa.
La sua opera, le sue pagine memorabili e avvolgenti, affascinanti ed eleganti resteranno per sempre e per tutti.
Ma il Citati che ho conosciuto io, che mi ha insegnato l’esercizio della libertà e della verità – che solo oggi, all’alba dei quarant’anni, sto iniziando a comprendere -, che mi ha riempito di storie e racconti meravigliosi: quel Citati, che io e pochi altri abbiamo avuto la fortuna di conoscere, mi manca e mi mancherà sempre. Nonostante il ricordo delle sensazioni provate in quei pomeriggi nel salotto della sua casa ai Parioli resterà vivo e indelebile nel mio cuore.
N°58 del 29/08/2022