-di Edoardo Crisafulli-
28 aprile 2022, una giornata come tante altre: dimenticabile. Non per l’operaio Fabio Palotti e i suoi cari: Fabio muore, a soli 39 anni, mentre sta lavorando alla manutenzione di un ascensore nello stupendo edificio che ospita il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Ero lì, di prima mattina – sbigottito –, di fronte all’ascensore temporaneamente bloccato. La notizia di quella morte assurda corre come un fremito di foglie nei corridoi della Farnesina. Ma come è possibile morire così, al giorno d’oggi, in quella che è una democrazia matura, dotata della Costituzione “più bella al mondo” (e impregnata di valori socialisti), in quello che è un Paese fondatore dell’Unione Europea, nonché ottava potenza economica a livello mondiale? Chissà perché immaginavo quello che sarebbe successo di lì a poco: ecco che partono come saette i comunicati tracimanti sdegno. Tutti i politici ripetono la stessa formula: queste morti sono uno scandalo, in una nazione civile sono inammissibili. Dopo di che, statene pur certi, tutto tornerà come prima. Nessun politico che abbia annunciato un provvedimento concreto – che sia uno! – con relativo cronogramma, come si dice oggi, per realizzarlo in tempi brevi e certi. Le invettive, le esternazioni, la forza del pensiero fermeranno l’emorragia di sangue innocente?
Mi documento velocemente. Secondo i dati INAIL, nel 2021 ben 1.221 persone hanno perso la vita sul luogo di lavoro o a causa di incidenti lavorativi: schiacciati o travolti da macchinari, caduti da ponteggi, folgorati ecc. Ovvero una macabra media di tre morti al giorno. Le chiamano “morti bianche”, presumo, per suggerire fatalità: se le definissimo omicidi colposi seriali o stragi colpose, qualche antenna nel nostro Parlamento si drizzerebbe. Forse quella locuzione non è così infelice: ne richiama alla mente una simile: “lupara bianca”, ovvero l’omicidio di mafia in cui gli assassini occultano l’assassinato. A pensarci bene, nelle morti bianche avviene un doppio occultamento: quello delle responsabilità – individuali, nel caso dei datori di lavoro, e collettive, per quanto riguarda i politici che non impongono controlli a tappeto e misure preventive –, e quello relativo all’identità delle vittime: numeri anonimi in macabri conteggi. Raramente ci soffermiamo sui volti di questi morti senza colpa, quasi mai conosciamo le loro storie di vita.
È questa, cari miei, l’inutile strage del 21esimo secolo! Muoiono ogni giorno i civili ucraini in guerra, e questo è vergognoso; muoiono ogni giorno i migranti in mare, e pure questo è sommamente vergognoso. Muoiono più di mille esseri umani all’anno in un Paese democratico, in pace da settant’anni, e la cosa più vergognosa è che il bollettino delle morti bianche ormai non scandalizza più nessuno. Tragiche fatalità come gli incidenti automobilistici? Eppure, a suo tempo è bastato imporre le cinture di sicurezza e l’airbag, nonché punizioni esemplari e l’introduzione di un nuovo reato, l’omicidio stradale, per chi causa la morte altrui guidando in stato di ebbrezza e…i decessi sulle strade guarda caso sono calati sensibilmente. Perché non si riesce – o non si vuole – fare altrettanto per i lavoratori che lasciano la pelle nell’esercizio della loro attività?
Imprimiamoci bene in mente questa cifra allucinante: mille duecento ventuno morti innocenti – in Italia, nel 2021. A leggerla, mi sono sentito come Dante, scioccato di fronte all’accalcarsi di anime morte nell’antinferno, quando vide correre “sì lunga tratta di gente, ch’i’ non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta”. Solo che gli ignavi, in questo caso, sono i politici della sinistra di governo: soggetti indegni di correre dietro all’insegna dei lavoratori. Ma esiste ancora, questa insegna? La bandiera rossa non c’è più: è un vecchio straccio buono solo per le corride. Il Partito socialista ha conservato il colore rosso, per il suo simbolo, su cui campeggia il garofano rosso. Ma parliamo di un partito minuscolo, purtroppo. Il PD, la formazione maggioritaria a sinistra, fin dalla sua fondazione relega ai margini i lavoratori: eloquente il suo logo aziendale – i simboli mica pongono il mondo a caso. Sì, un aggettivo stupendo, democratico, accompagna il sostantivo partito. Ma perché non dovrebbero rivendicarlo tutti i partiti, quell’aggettivo? Perché insistere su cotanta ovvietà? Nel processo di fusione a freddo fra ex Pci ed ex DC, si voleva un termine evocante con immediatezza la tradizione americana. Insomma: dal feticcio di Mosca (Lenin) al feticcio statunitense (Kennedy). Un passo in avanti, per carità. Ma perché tutto va bene fuorché l’esecrato aggettivo socialista? Perché rompere con la nobile tradizione del socialismo italiano, che è imperniata sulla dignità e universalità del lavoro? Kennedy, figura rispettabilissima. Ma io preferisco annoverare fra i miei padri ideali Giuseppe Di Vittorio, Bruno Buozzi, Flippo Turati e Sandro Pertini – quest’ultimo fece anche il muratore in Francia per guadagnarsi un tozzo di pane durante l’esilio. Deve aver giocato la sua parte, nell’infelice scelta della terminologia postcomunista e postdemocristiana, sia il complesso d’inferiorità dei comunisti, sedicenti pretoriani della democrazia contro i rigurgiti antifascisti, sia il ricordo, da parte dei cattolici, della mitizzata Democrazia cristiana – collocazione, questa, assurda: la democrazia è, semmai, socialista, non già cristiana, islamica, buddista o indù. E che dire della simbologia del neonato partito dei democratici? Quel ramoscello d’ulivo, che simboleggia pace e concordia, ha una sua intrinseca poeticità. Mi ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme fra folle festanti, e la Pasqua beneaugurante: pace universale e Resurrezione. Ma che c’azzecca con la nostra cultura politica secolare?
Almeno il vecchio simbolo con la falce e il martello trasmetteva un messaggio chiaro, energico, forte. Quando Craxi volle disfarsene per segnalare il nuovo corso liberalsocialista in contrasto con un PCI veteromarxista, cosa fece? Non recise affatto il legame ombelicale con il mondo del lavoro! Il suo scopo non era snobbare i contadini e gli operai a favore dei ceti mergenti, bensì coinvolgere tutti i cittadini attivi nella gran comunità del lavoro. E infatti trovò un eccellente simbolo sostitutivo: il garofano rosso, antico simbolo delle lotte dei lavoratori italiani. Craxi, peraltro, idolatrava il celebre dipinto di Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, in cui una folla di lavoratori fiera di sé avanza sul proscenio della storia. Accusato dai comunisti d’essere un traditore della classe operaia, Craxi in realtà si abbeverava alle fonti del socialismo italiano, e infatti mai fuoriuscì dal solco tracciato nel 1892 a Genova: il lavoro, i lavoratori. Il primo partito di massa della sinistra italiana non si chiamava forse ‘partito dei lavoratori’ prima ancora di dirsi socialista? E la Repubblica italiana non è forse fondata sul lavoro? E Nenni non volle forse chiamare Mondoperaio la rivista teorica del partito socialista? E i nostri Padri Costituenti non ebbero forse ben chiare le coordinate della nuova Italia, tant’è che costituzionalizzarono sia la centralità del lavoro che il diritto a un lavoro dignitoso? La classe politica forgiatasi nella Resistenza aveva i lavoratori nel cuore e nel proprio DNA. Cosa erano stati gli scioperi del 1944, nel Nord d’Italia, se non atti di sabotaggio antifascista? L’operaio – combattente civile nelle retrovie – era essenziale per lo sforzo bellico. Se le fabbriche delle democrazie non avessero prodotto a pieno regime, gli Alleati non avrebbero prevalso su Hitler. Pochi decenni dopo, in regime di liberal democrazia, che ne è della fabbrica, che ne è del mito dell’operaio? Tutto svanito in un buco nero! Magari si parlasse delle nuove professionalità, no, sono proprio scomparsi i lavoratori dalla scena politica. Sostituiti dalla seguente formula gesuitica e campata per aria: “famiglie e imprese”. Si ha come l’impressione che la festa del Primo maggio sia un residuato bellico, l’eredità scomoda di un Novecento stantio e ammuffito. Il lavoro sopravvive come lacerto di una mitologia arcaica. E difatti il Primo maggio – Festa dei lavoratori! – è ormai occasione per parlare (e sproloquiare) di tutto, a trecentosessanta gradi, tranne che per concentrarsi sulla ragione per cui è stato istituito come festività.
Vi stupite? Nomen est omen. Eccoli i nomi dei principali partiti post-Tangentopoli: Forza Italia, Partito delle libertà, Partito Democratico, Italia dei Valori, Fratelli d’Italia, Italia Viva, Cinque Stelle. Non un singolo partito che abbia un sia pur tenue legame linguistico o simbolico con i lavoratori o il mondo del lavoro. Mi ripeto: i politici di ogni orientamento ripetono come pappagalli lo stesso mantra ipocrita, de-ideologizzato: bisogna pensare anzitutto alle famiglie e alle imprese. I lavoratori sono un ectoplasma. Eppure non è – come spesso si pensa – l’eguaglianza a definire la nostra identità socialista. È semmai la centralità del lavoro non alienato, dignitoso, gratificante. Ovvio che non possa darsi democrazia autentica senza eguaglianza sostanziale: la liberaldemocrazia deve fondarsi sul Welfare State e sulla dignità del lavoro – oppure non è altro che un mero involucro. Guai se i diritti civili e politici non viaggiano di pari passo con quelli economico-sociali. Come far sì che i diritti si comportino come vasi comunicanti? La strada maestra è una sola: muoversi politicamente nell’unica dimensione che caratterizza la natura umana e ci distingue dagli animali: il lavoro, l’operatività.
È da Marx, quindi, che dobbiamo prendere le mosse. Giacché, nonostante gli errori o abbagli madornali — il messianismo comunista, la folle idea di poter plasmare la natura umana, la critica dei diritti ‘borghesi’ di libertà –, le nostre origini sono pur sempre nel suo pensiero. Non mi pronuncio sulle diatribe interpretative (Marx ha davvero preconizzato la fine del lavoro nella società comunista, come sostiene Hanna Arendt, oppure solo il superamento della sua forma alienata o alienante, legata a un modo di produzione, quello capitalistico, basato sullo sfruttamento?). C’è un punto fermo: è innegabile che Marx sia stato il primo filosofo a teorizzare un sistema concettuale imperniato sul lavoro inteso come attività cosciente, a cui noi umani imprimiamo finalità sociali; il lavoro è un’attività congenitamente umana, che definisce la nostra condizione ontologica; il lavoro è un operare razionale e concreto essenzialmente diverso da qualsiasi attività animale o robotica, capace di produrre valore, ricchezza, progresso. L’Homo Faber, insomma, è più originario e autentico dell’uomo dotato di ragione (filosofia greca) e loquela/anima (cristianesimo). È, questa, una bizzarra, ma feconda metafisica materialistica che pone i lavoratori in carne e ossa al centro del cosmo. La spiritualità è di questo mondo: è il lavoro non alienante, altra cosa dall’astratto filosofeggiare o confrontarsi col divino mentre gli schiavi si spaccano la schiena per mantenere una casta sacerdotale nell’ozio. Arriverà il momento in cui una società di liberi ed uguali farà sì che il lavoro sia predominantemente attività creatrice e appagante, realizzazione delle nostre potenzialità, in sintonia con l’essenza del genere umano. Non a caso quella mente geniale di Gramsci partorì la definizione di ‘filosofia della prassi’.
In quanto militante di sinistra sono indignato, mi sento offeso nel mio intimo. Cos’hanno fatto, i nostri leader, per porre il lavoro al centro della loro azione politica, negli ultimi vent’anni? Ciò vuol dire: piena occupazione, dignità del lavoro, sicurezza sul lavoro. È rimasto solo il Sindacato in prima linea. La UIL, cui mi onoro di appartenere da 35 anni (oggi sono nel direttivo della UIL-PA Esteri), predica nel deserto politico attuale. Pierpaolo Bombardieri ha fatto della sicurezza sul lavoro uno dei punti cardine del suo mandato. Troverà sponde politiche, orecchie attente, in Parlamento? La sicurezza riguarda anche la Pubblica Amministrazione, mica solo il settore privato. Cito da una pubblicazione della UILPA (Salute e sicurezza del lavoro nella P.A., a cura di Grazia Maria Delicio e Vincenzo Candida, Edit Edizioni): “In una dinamica etica, sociale ed economica sana, il lavoro non è un privilegio o un miraggio ma un diritto e un dovere di ciascun individuo. Il lavoro, in quanto ‘diritto’, è un elemento essenziale per lo sviluppo della personalità e, in quanto ‘dovere’, è un elemento fondamentale di appartenenza e di partecipazione alla vita della comunità. La salute sul posto di lavoro oltre ad essere un diritto del lavoratore è un interesse delle amministrazioni e delle imprese perché è dimostrato che lavorare in un ambiente confortevole oltre a migliorare la produttività riduce l’impatto sui costi sociali: la sommatoria dei costi per le giornate di lavoro perse, cure mediche, premi assicurativi e risarcimenti per malattie professionali e infortuni”.
Non avrei potuto esprimermi con più mirabile efficacia. Attenzione, però, ai luoghi comuni dettati da ignoranza! La salute – oggi più che mai – è anche mentale, ovvero benessere psichico: si pensi ai costi conseguenti al mobbing, alle ingiustizie e ai piccoli soprusi quotidiani subiti sul posto del lavoro, in tanti uffici. L’idea che i dipendenti pubblici in situazioni stressanti possano far ricorso a uno psicologo stenta tuttora ad affermarsi, benché questa sia una prassi consolidata nei principali Paesi dell’Unione Europea. Io, che lavoro alla Farnesina, un Ministero reputato giustamente una ‘bomboniera’, per ben tre volte nella mia carriera ventennale mi sono trovato in situazioni belliche. Noto, per la prima volta, in questo tragico 2022, una maggiore sensibilità per la nostra salute mentale. Ma la strada da percorrere è ancora lunga. Nel mio Ministero, nella più totale segretezza, domina il ‘fai da te’: visite private dallo psicologo, ampio ricorso ad antidepressivi e benzodiazepine. In Italia c’è ancora un grosso problema culturale: se vai ‘giù di testa’, sei tu il problema, l’organizzazione per cui lavori non c’entra nulla. Meno male che Darwin era britannico….
Lo sanno anche le pietre che il mondo sta cambiando con velocità impressionante. Ma allora, cari politici di sinistra, se non reggete i ritmi datevi all’ippica! Con buona pace di Bauman, non viviamo in società liquide: arranchiamo in società solide, dove è facile sbattere il grugno in tanti muri e ostacoli. Società, le nostre, ibride e pulviscolari in cui convive tutto e il contrario di tutto: il lavoro creativo e avveniristico sulla (o nella) realtà virtuale e aumentata, i dirigenti statali protetti e ben remunerati, i funzionari demansionati o “allomansionati”, qualifiche che svolgono mansioni ben superiori a quelle per cui sono retribuite, il lavoro agile o smart, il lavoro novecentesco pesante e pericoloso, colletti bianchi e tute blu, statali con stipendi da fame, precari senza tutele, rider, impiegati nei call centre, tirocinanti sfruttati, dipendenti del privato licenziati in tronco ed obbligati, per sopravvivere, alla partita IVA – e chi più ne ha più ne metta.
Voglio, anzi: pretendo, proposte concrete, con tanto di cronoprogramma, finalizzate a cancellare almeno la vergogna delle morti bianche in ambito lavorativo. Come intendete affrontare questo problema incancrenito, hic et nunc? Come vi proponete di guarire questa piaga purulenta? Non fate orecchie da mercanti, mi sto rivolgendo a voi, politici di sinistra!
N°39 del 10/05/2022