-di PIERLUIGI PIETRICOLA–
Ho letto la recensione che Gianluigi Rossini ha scritto su Vita da Carlo. A chiare lettere, egli afferma di non averla gradita, qualificandola come pessima, esile nella struttura. In sostanza, prosegue Rossini, nulla più d’un semplice pretesto per inanellare scenette non brillanti e affidate a interpreti che, nonostante la loro bravura, non riescono a colmare i vuoti presenti in sceneggiatura. Per Rossini, in questa serie Carlo Verdone non avrebbe messo in scena se stesso ma una sua caricatura, così risultando poco credibile.
Una simile recensione, va da sé, lascia il tempo che trova, tanto evidente quanto essa sia il frutto di un malinteso ingenuo e tremendamente banale: pensare a Vita da Carlo come a un documentario, al limite lievemente sceneggiato, sulla quotidianità di Verdone.
I più avveduti col genere letterario dell’autobiografia sanno bene che chi parla di sé attraverso una forma artistica non lo fa mai per spirito di verità cronachistica. Basti pensare alla Recherche: il vero Marcel Proust non corrisponde minimamente all’autore in persona, se non in piccolissima parte. L’autobiografia non è cronaca né regesto appuntato su di un diario di ciò che accade; bensì la porta d’ingresso per mondi che, diversamente, non verrebbero rievocati né raccontati da un certo punto di vista.
Avendo visto per intero Vita da Carlo (Gianluigi Rossini l’ha vista? Dalla sua recensione così eiaculatoria parrebbe proprio di no), un dettaglio emerge nell’immediato: l’esigenza, da parte di Verdone, di raccontarsi senza dover vestire i panni di un personaggio. Ma in questo racconto egli non è solo. Sempre lo accompagna la visione di una città – Roma – che ha perduto il senso estetico e la dignità del bello, assieme ai suoi cittadini. I quali vengono bonariamente un po’ redarguiti per sovrapporre di continuo, in tutte le situazioni, il personaggio Verdone sulla persona Carlo.
Il cinema, come forma d’arte, non può rappresentare la verità. Semmai può interpretarla. E Vita da Carlo non fa, in tal senso, eccezione. Quella che vediamo, difatti, è l’interpretazione che Verdone dà della sua vita non lavorativa. E qui sta la sua forza: nell’averci fatto entrare, per la prima volta nell’arco di una lunghissima carriera, nello spirito dell’artista, mettendosi a nudo in ciò che più gli sta a cuore.
Che tutto questo si accompagni a un pizzico di finzione: che vi siano episodi che facciano ridere per la loro paradossalità; che si sia calcata, in fase di sceneggiatura, un po’ la mano per colorare la quotidianità altrimenti non raccontabile: tutto questo è naturale. Ma ciò non vuol dire falsare la verità. Al contrario, vuol dire fornirle un supporto e dei colori così da renderla artisticamente interessante, ma non per questo inverosimile o, ciò che è peggio, una menzogna.
C’è da porre attenzione anche a un altro particolare: il fatto, cioè, che nella recitazione di Verdone, così come in quella di tutti gli altri interpreti, non vi è intenzione alcuna di voler apparire caricaturali, stigmatizzando un personaggio in un gesto o un tic. Rossini – o chi della sua stessa opinione – potrebbe obiettare che nella serie vi siano dei caratteristi: l’autista che, portando Verdone e l’amico Max Tortora allo stadio per vedere la partita della Roma, fa un incidente per una guida scriteriata; oppure l’ammiratrice esagerata che costringe il suo idolo a ripetere nella vita vera una scena celeberrima tratta dal film Viaggi di nozze. Ciò che è innegabile. Ma per coloro che ben conoscono Roma, non vi è bisogno di spiegare la naturale e spontanea propensione di certe persone a comportamenti molto caricaturali, tali da rendersi coloriti agli occhi del passante più ignaro. Particolarità che a Verdone non sono mai sfuggite, e che egli ha sempre inteso immortalare in un’inquadratura o, come avvenuto per il recente e bellissimo libro La carezza della memoria, in un racconto su carta.
Sono, in conclusione, più che mai persuaso del fatto che Vita da Carlo stia a Verdone come Ricerca e perdizione stia a Isaac B. Singer: un’opera creativa basata sulla verità. E questo, riprendendo le parole di Singer stesso, perché la storia di una vita umana è oltre le possibilità della letteratura e dell’arte tout court.
Limite che può essere colmato solo grazie al potere della verosimiglianza: la sincerità più vera, l’unica che possiamo avere in vita, e che solo i grandi artisti come Carlo Verdone sanno donare.
N°: 79 del 09/11/2021