– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Nel linguaggio autoreferenziale delle destre, ricorre spesso la definizione di “anime belle”, intesa in un’accezione ironica ma il più delle volte dispregiativa. Chi sono queste anime belle, oggi sempre più fatte oggetto di scherno se non perfino vituperate? Coloro che si prendono cura dell’ambiente come patrimonio di tutti e condizione essenziale per la sopravvivenza del pianeta, che firmano petizioni contro la distruzione dell’Amazzonia, che difendono il diritto alla diversità sessuale, il principio dell’accoglienza e della comprensione dell’altro, che raccolgono firme a sostegno di Mimmo Lucano. Che, infine, si illudono, forse, di lottare ancora per un mondo più vivibile e giusto. Insomma, quelli che cercavano di vivere fuori dal sistema o di cambiarlo dall’interno, quelli che un tempo si mobilitavano contro la guerra in Vietnam, contro la dittatura in Cile o in difesa dei diritti delle donne. Una folta schiera di uomini e donne convinti della giustezza della propria militanza come in parte avviene anche oggi.
Passi pure il fatto che costoro siano stati da sempre, per definizione, considerati nemici di un determinato pensiero conservatore, ma risulta più difficile pensare che tale vasta e varia umanità venga oggi rubricata come radical chic. A parte l’infelice definizione coniata da uno scrittore americano, Tom Wolfe, iniziatore del cosiddetto new journalism, ciò che davvero alimenta la convinzione della maggioranza è una vera e propria crociata in atto contro la figura e il ruolo dell’intellettuale, in particolare del critico, (tema sul quale si è detto molto, forse non abbastanza), la punta dell’iceberg del cosiddetto “radicalismo chic”, cioè colui che sfruttando la propria posizione sociale e i propri privilegi, si arrogherebbe il diritto di giudicare e di separare ciò che è bello da ciò che è brutto, il raffinato dal corrivo, ma soprattutto la facoltà di orientare il pubblico talora destabilizzando il mercato culturale che al pari di ogni altro mercato, esige la massima valorizzazione dei suoi prodotti.
Con la nascita e lo sviluppo del mondo digitale, si registra, accanto ad un processo di massificazione della cultura, la presenza di un nuovo soggetto, il consumatore digitale, rappresentazione tangibile di un “io di massa” entro una prospettiva sociale in cui la comunicazione si rivela essere più importante della cultura, il “come” rispetto al “che cosa”. In altre parole, la cultura della comunicazione, come aveva previsto Marshall Mc Luhan, ha indebolito il messaggio a favore del medium. Tuttavia la crisi e l’eclissi dell’intellettuale, già prevista da Elémire Zolla in un suo famoso saggio del 1956 (1), subisce un’accelerazione compresa tra la fine del secolo passato e l’oggi, con il declino e la scomparsa dell’intellettuale organico ed engagé, determinati a loro volta dall’esaurirsi della spinta ideologica e dalla crisi della dottrina marxista e della sua interpretazione della cultura. I tempi gloriosi dei “mandarini” della Rive Gauche, all’ombra della coppia Sartre-Beauvoir sono ormai lontani. Qualcuno ha detto che oggi sono i giornalisti i soli intellettuali rimasti in circolazione. Se ciò corrispondesse del tutto alla realtà, sarebbe davvero preoccupante. E con questo il cerchio si chiude. Se le destre di sempre non sono solite fare distinzione tra le masse “militanti” e le elites intellettuali, è innanzitutto perché non hanno mai creduto alla figura dell’intellettuale come “bussola del presente,” ritenendolo piuttosto una prerogativa della sinistra e nel gergo peggiore, dei cosiddetti “sinistrorsi”, (in sfregio anche ai pochi intellettuali di destra in circolazione!) e inoltre, per una ragione assai semplice, che entrambi contribuiscono a destabilizzare un sistema di idee, di funzioni e di profitti consolidato.
Vale la pena di ricordare che una critica a suo modo populista alla figura dell’intellettuale veniva proprio da uno di essi del Pci, il regista Ettore Scola che, lo abbiamo già ricordato altrove, nel definire in un film diventato famoso, la figura del cosiddetto intellettuale organico comunista, finisce per attribuirgli una tale onnipotenza da poter, dunque, affermare che “l’intellettuale è più sotto, più sopra, più oltre”, oppure che “l’amicizia è una congiura tra pochi”, specialmente se confrontata con l’altra figura centrale del film, quella del militante comunista “proletario”. Per il regista, forse, l’appartenenza dell’intellettuale alla classe borghese, spesso con annessi privilegi, ne comprometterebbe la sostanziale coerenza e concretezza. Una visione, questa, che ritroviamo formulata in ben due opere (2) anche da un altro intellettuale cineasta comunista, Francesco Maselli, tutto sommato un po’ miope, che ha finito presto per accomunare destra e sinistra, pur da prospettive e storie assai diverse, nella messa in discussione di una figura e insieme un modello culturale che risalirebbe fino ad Antonio Gramsci.
Ma quella di Scola è, per sua scelta, una satira, non lo dimentichiamo. La questione del ruolo dell’intellettuale nella società complessa e liquida come la nostra è cosa ben più seria. Presuppone la presa d’atto del tramonto di un’intera cultura e con essa di un’epoca, di un secolo.
Non importa, infine, se si continuerà a fare petizioni, a difendere la terra e a difendere ogni minoranza presente al mondo, compresa quella degli animali in via di estinzione, perché comunque vadano le cose, il diagramma dell’avidità e della prepotenza del potere oscilleranno sempre tra i vertici e la base dove oggi sembra davvero prevalere una strana triade, a cui tutti, felicemente, possiamo aderire, se lo vogliamo, o forse ne siamo già parte integrante, quella dell’ego-mio-dio…!.
Note
- Si tratta di Lettera aperta a un giornale della sera, 1970, e di Le ombre rosse, 2009. Nel primo un gruppo di intellettuali deve decidere se formare una delegazione da mandare in Vietnam a sostegno della resistenza vietnamita. Nel secondo, i soliti intellettuali romani si mobilitano per realizzare una Casa del Popolo sul modello francese voluto da Andrè Marlaux allora ministro della cultura, sulle ceneri di un centro sociale periferico popolato appunto da “anime belle”. In entrambi i casi le iniziative saranno votate al totale fallimento. Da qui si può ben comprendere l’accusa implicita (che risponde più ad una necessità di autocritica) di inconcludenza di un “elite senza potere”, più incline, forse, ai gesti simbolici che alle decisioni concrete. A distanza di quarant’anni, lo sguardo del regista si è fatto dunque più pessimista e disilluso.
- Elemire Zolla, L’eclissi dell’intellettuale, Bompiani editore, Milano 1956, rist. idem 1959
N: 78 del 08/11/2021