Egemonia culturale, editoria italiana

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

La recente scomparsa di Roberto Calasso ci induce a pensare al ruolo esercitato dalle edizioni Adelphi, da lui co-fondate insieme a Luciano Foa e Roberto Olivetti, in collaborazione con Roberto Bazlen, Sergio Solmi, Giorgio Colli a Milano nel 1962, nella cultura italiana degli ultimi cinquant’anni. Un ruolo conquistato grazie alla caparbietà e al talento individuale con cui viene perseguito l’intento di opporsi all’egemonia culturale, qui intesa nell‘accezione gramsciana, rappresentata fin a quel momento dalla casa editrice di Giulio Einaudi. Si trattò di un vero e proprio antagonismo culturale che finì per comprendere anche due delle tre città più importanti del nord Italia, Torino e Milano. Nella prima l’analisi marxista forniva solide basi all’imperante realismo letterario difeso da un gruppo coeso di intellettuali e scrittori riuniti intorno a Einaudi come Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Elio Vittorini ed Elsa Morante, che pubblicano l’opera omnia di Cesare Pavese e di Beppe Fenoglio, celebrando le lotte partigiane e l’impegno politico nella letteratura, e insieme un’Italia nuova e antifascista, mentre nella seconda un giovane miliardario figlio della Milano bene fondava nel lontano 1956, su posizioni neo-marxiste e terzomondiste, la Giangiacomo Feltrinelli editore. Questa duplice egemonia di sinistra, quindi fortemente ideologica, non poteva essere che mal tollerata da Calasso, un intellettuale fiorentino ma milanese d’adozione e dai suoi soci che alla fine, dopo interminabili discussioni si decisero “a pubblicare i libri che avrebbero voluto leggere”, secondo le parole pronunciate dallo stesso Calasso: i romanzi dell’inquietudine mitteleuropea della cosiddetta Finis Austriae (la Mitteleuropa diventò, tra gli anni settanta e ottanta, un brand culturale alla moda tra la borghesia radical chic proprio grazie ai libri Adelphi della collana “Biblioteca”) o del nichilismo di un Thomas Bernard (che solo più tardi si mise a pubblicare anche la stessa Einaudi); l’opera (in edizione critica), altrove avversata e bandita, del grande filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, i grandi testi del pensiero e delle letterature orientali oppure l’irruzione del fantastico nella letteratura ceca e praghese. Una rivoluzione che sovverte e oltrepassa i canoni lukácsiani, già peraltro superati dalla stessa Einaudi, ad esempio, con l’impegno nella traduzione dell’opera di un filosofo quasi eretico, in seno alla Scuola di Francoforte, Walter Benjamin. Libri che Calasso e Bazlen, il quale dopo avere teorizzato il cosiddetto “libro unico”, morì poco dopo l’inizio dell’attività editoriale, volevano come una “vasta parte dell’essenziale”, ma clamorosamente non ancora pubblicati nella nostra lingua. Tuttavia l’antagonismo con casa Einaudi resterà pur sempre di natura squisitamente ideologica. Al materialismo dialettico e ad una lettura marxiana della realtà sociale unita ad una vocazione pedagogica, Calasso contrapponeva, anziché giustapporre in nome di una visione più universale della cultura e in particolare dell’arte letteraria, con le sue scelte attinte da quella molteplicità di “gemme” letterarie, filosofiche e teologiche, tra Oriente e Occidente, purtroppo non ancora colte dal lettore italiano, la scena dell’irrazionale, del fantastico letterario, di una letteratura della crisi, quindi non italiana (peraltro riscoperta in seguito ma a piccoli dosati sorsi, non sempre felici), e, infine, di  una spiritualità alta, gnostica, dunque estranea a qualsiasi teologia confessionale.

Un aneddoto riferito dallo stesso Calasso nel volume L’impronta dell’editore, spiega assai bene l’avversione per il materialismo e lo “zdanovismo” einaudiani; infatti, quando gli fu chiesto di compilare la voce ”corpo” per l’Enciclopedia Einaudi, (quell’impresa titanica del pensiero che da sola non poco contribuì alla rovina dell’editore), Calasso, provocatoriamente, chiese, a sua volta, se ci fosse anche la voce “anima”. Com’era ovvio, essa non era contemplata. Tale assenza determinata proprio da una visione atea e materialistica del mondo, spiega assai bene l’enorme distanza che separava l’allora giovane editore milanese da Giulio Einaudi, del quale, tuttavia sa riconoscere la grandezza, o meglio, la sua grande qualità editoriale. Perfino nella veste grafica la contrapposizione con Einaudi fu netta: là dominava e domina tutt’ora l’eleganza del bianco accompagnata da un segno grafico essenziale e sempre moderno, mentre a casa Adelphi si sono prediletti i colori pastello nelle gradazioni più sfumate su di una grafica più tradizionale.

Un programma ambizioso quello di Calasso, perseguito per oltre cinquant’anni, segnato da illuminazioni e da cadute di tono in talune scelte editoriali recenti, il cui maggior merito fu quello di aver inventato un pubblico devoto a una certa idea di cultura che oggi, forse, lentamente sta scomparendo. Quanto lunga sarà la sua agonia, non lo sappiamo, ma è certo che l’editoria continuerà a sfornare libri con occhi sempre più rivolti al marketing e all’omologazione, noncurante della sproporzione tra quantità di volumi prodotti e numero dei lettori che sappiamo essere tra i più bassi d’Europa.

 

 

 

N°: 65 del 30/08/2021

 

 

 

Testi di riferimento:

Calasso Roberto, L’impronta dell’editore, Adelphi edizioni, Milano 2013

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