Omicidi politici e storiografia giudiziaria: una “contro recensione”, II

– di EDOARDO CRISAFULLI –

Ecco la mia “contro recensione”. Il saggio di Ginzburg dovrebbe far parte della biblioteca di ogni liberalsocialista: in Italia è radicato il partito dei giudici, di coloro cioè che professano la fede nell’equilibrio dei tre poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – e al tempo stesso, perorano la causa dello squilibrio dei poteri, minando le fondamenta dello Spirito delle leggi di Montesquieu: alla Magistratura attribuiscono una funzione extra costituzionale, quella di tenere sotto tutela Parlamento e  Governo, confinandoli in una condizione di minorità perenne.

Il partito dei giudici è “virtuale” (trattasi di un’alleanza invisibile dei giusti e dei puri) e “trasversale” (i giusti e i puri scalpitano sia a destra che a sinistra). I suoi adepti sono fanaticamente convinti che solo i primi due poteri, quello legislativo ed esecutivo, possano debordare dalle loro funzioni o, addirittura, deragliare fuori dai binari costituzionali. Il Parlamento e il Governo non sono forse composti da politici? Beh, allora hanno le carte in regola per trasformarsi nella sentina di ogni corruzione. I politici non ricorrono forse a ogni mezzo pur di garantirsi l’impunità intralciando il lavoro salvifico dei giudici? Solo il terzo potere, la Magistratura, è geneticamente indenne da vizi e storture. Essa è il faro delle liberaldemocrazie nonché garante di fatto del corretto funzionamento del sistema democratico. L’ipertrofia del potere giudiziario è necessario per la salute pubblica: “politica forte, nazione infetta; magistratura debordante, nazione sana”. Va da sé che i militanti di questo bizzarro partito propagandano un dogma: le sentenze sono scolpite nella pietra, è impossibile che siano politicizzate o manipolate. Ecco perché il legislatore, saggiamente, volle l’obbligatorietà dell’azione penale. In sintesi: i giudici, ricevuta la fiammella dello spirito Santo, agiscono come automi intelligenti in base alla deontologia professionale e all’interesse della nazione. Figuriamoci se compiono scelte discrezionali; non sia mia, poi, che sbagliano quando partoriscono sentenze ex cathedra in nome del popolo italiano. Codesti strani homo sapiens illuminati non appena indossano la toga dismettono i panni dello zoon politikon, con buona pace di Aristotele.

Nella declinazione più moderata, l’ideologia del partito dei giudici considera la Magistratura il potere democratico per eccellenza, il primus inter pares e, in quanto tale, presidio della Costituzione repubblicana, falange che difende lo spirito delle leggi con le unghie e con i denti dagli attacchi della politica inquinata e corruttrice. Qui i giudici svolgono una funzione difensiva. Nella versione più estrema, quella dei giustizialisti, la Magistratura non applica semplicemente le leggi votate dal Parlamento: è un potere rivoluzionario, benché (o forse proprio in ragione del fatto che) la sua legittimità non derivi dal voto popolare. I giudici sono giacobini in doppiopetto ai quali la nazione demanda una missione etica che si biforca in due direzioni: a) fornire l’interpretazione autentica delle norme, che è solo quella progressista; b) purificare Governo e Parlamento. Qui prevale l’interventismo aggressivo. Il contrario dello Stato di diritto, insomma. Questa concezione antigarantista non ha corrispettivi, in termini di popolarità, nelle altre democrazie europee. Che il giustizialismo abbia prodotto solo guasti e disastri l’abbiamo toccato con mano durante il golpe mediatico-giudiziario Mani Pulite. Gli effetti nefasti di quel golpe perdurano nel presente: il Parlamento, dopo anni di delegittimazione, è spesso sotto scacco; un avviso di garanzia che scocca al momento giusto, strombazzato come si deve, può troncare la carriera di un leader politico o assestare un colpo di maglio alla maggioranza politica determinata da libere consultazioni popolari, se quel leader è al governo.

La cosa assurda è che il partito dei giudici ha coriacei adepti in Parlamento, così avviene che alcuni rappresentanti del popolo abdichino in favore dei magistrati militanti. E così si infilano da soli il cappio nel collo. Più la politica si arrende ai procuratori d’assalto e alle loro sponde nei mass media, più si fa strada l’antipolitica: il popolo reclama un potere forte esterno in grado di sferzare o ridurre al lumicino un Parlamento imbelle e corrotto.  Il capo Palamara ha tutta l’aria di essere l’equivalente di Tangentopoli. Prevedo però che non avrà un effetto valanga analogo sul sistema giudiziario, benché siano stati scoperchiati un bel po’ di sepolcri imbiancati. Una parte consistente della Magistratura è incardinata in un sistema di potere autoreferenziale e impermeabile ai controlli esterni: a quanto pare alcuni magistrati perseguono disegni politici, coltivano spregiudicatamente rapporti d’interesse con giornalisti e politici. Sarebbe questa l’indipendenza della magistratura agognata dai nostri patri Costituenti?

Ginzburg era amico di Sofri, ma non ha né scheletri nell’armadio né secondi fini come certi garantisti di comodo che hanno nidificato a destra. Egli mette a nudo incongruenze e devianze del giustizialismo dalla prospettiva della sinistra libertaria. Una cosa è l’uso politico della giustizia, ovvero la strumentalizzazione di indagini e sentenze per delegittimare l’avversario, attività in cui si esercitano anche molti politici (qui sono i politici che sbagliano). Altro è la politicità dell’azione inquirente e giudiziaria, cioè l’avvio di inchieste mirate, per colpire persone sgradite politicamente, o l’assoluzione preventiva per coloro che sono invece graditi (qui sono i magistrati a commettere l’abuso). Ecco i due punti essenziali:

1) Argomentando in maniera impeccabile le sue tesi, Ginzburg si sofferma sulla politicità del processo a Sofri: mette a nudo le contraddizioni e le illogicità tanto nelle deposizioni del teste (o ‘pentito’) Marino quanto nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Milano. Emergono inquietanti analogie con i processi contro la stregoneria intentati secoli fa dall’Inquisizione, che Ginzburg conosce bene. Eccolo, il cuore del problema: il mito dell’infallibilità dei giudici, che deriva dalla loro missione salvifica. Sofri fu condannato per l’omicidio di Calabresi sulla base di un teorema: la chiamata di correità da parte di un ‘pentito’ equivale a una prova provata, anche se è zeppa di ambiguità e incoerenze – ma il grande giudice Giovanni Falcone, inviso a molti suoi colleghi quand’era in vita, non invitava forse a passare al setaccio le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia? È ovvio che, nell’accertare la verità processuale, si prendano le mosse da ipotesi di lavoro. Si tratta però di ipotesi logiche, e ben pensate? Questo dobbiamo chiederci. Un giudice onesto e bravo sceglie le ipotesi “dotate di un forte potere esplicativo”. Qualora i fatti non le supportino o le contraddicano, è suo dovere modificarle o abbandonarle. Se si impunta sulla colpevolezza dell’imputato per motivi ideologici o per imperizia, l’errore giudiziario è dietro l’angolo. Le ipotesi sono diventate teoremi e la condanna dell’imputato corrisponde al “come volevasi dimostrare” che ripetevamo sui banchi di scuola.

Lo storico che non accetta la propria fallibilità espone sé stesso al ridicolo e, se prende più di un granchio nel corso della sua carriera, verrà emarginato dalla comunità degli studiosi; la sua reputazione è appesa al corretto utilizzo della metodologia scientifica. I fatti/le fonti sono autentici/affidabili e ben analizzati? Pur ammettendo una pluralità di interpretazioni, lo studio è replicabile? Il magistrato che viene meno al suo dovere deontologico non rischia nulla, benché sbatta un innocente in galera o contribuisca a distruggerne l’immagine pubblica – in Italia abbiamo un circo mediatico-giudiziario molto attivo: per la stampa forcaiola un avviso di garanzia equivale a una sentenza di condanna extragiudiziale. La persecuzione giudiziaria è gradita solo se si abbatte come un fulmine sul leader politico della fazione avversa. Il giudice ha uno schermo protettivo che gli garantisce una sostanziale impunità: il consenso popolare: se è sistematicamente in sintonia con i giustizialisti, accresce enormemente il suo prestigio (così si spiegano tante carriere politiche di ex giudici…).  Per governare, nel mondo d’oggi, non bastano i proverbiali panem et circenses. Ci vuole anche la gogna del potente di turno inviso alle folle. Panem, circensens et furcam.

2) Anche in uno Stato liberaldemocratico la magistratura può travalicare dalle sue funzioni. L’originalità, più che nella tesi, è nel modo di argomentarla. Attingendo alla sua vastissima cultura, Ginzburg ci spiega anzitutto cos’è la storiografia giudiziaria, una branca di studi pseudo-storici che ha lo stesso valore dei pettegolezzi da rotocalco. Già dopo la prima lezione di storia sapevamo che non si studia l’antica Roma enumerando i vizi e le depravazioni di re e imperatori, condottieri e senatori; l’impero romano mica crollò a causa del rammollirsi di quelli che erano stati cittadini-patrioti tutti d’un pezzo nonché nerboruti guerrieri, e del corrompersi dei costumi degli uomini di governo (ah com’era forte e sana la Roma dominata da morigerate figure pubbliche come Catone il Censore!) Attenzione, però: c’è una differenza abissale fra “la storiografia moralistica ispirata a un modello giudiziario” e la politicizzazione della magistratura. È solo quest’ultima che arreca un vulnus allo Stato di diritto. “Chi tenta di ridurre lo storico a giudice semplifica e impoverisce la conoscenza storiografica; ma chi tenta di ridurre il giudice a storico inquina irrimediabilmente l’esercizio della giustizia.” Non lo si ripeterà mai abbastanza: lo storico e il giudice hanno compiti e responsabilità diverse. Il pessimo storico danneggia sé stesso e non rende un servizio ai suoi studenti; il pessimo giudice distrugge la reputazione dell’imputato e mina altresì la fiducia dei cittadini nella magistratura.

Che il giudice politicizzato goda a salire in cattedra a guisa di uno storico “contemporaneista” – giudice-interprete-castigatore delle vicende italiane e dei suoi protagonisti –, lo si arguisce da varie dichiarazioni pubbliche dei giudici del pool di Mani Pulite. Il giudice politicizzato è il depositario della verità processuale e storica. Quindi vede come il fumo negli occhi i dibattiti che mettano in discussione il suo operato (= le critiche sono attentati all’indipendenza della magistratura). La sua visione è ideologica perché viene presentata come neutra, apolitica, coincidente cioè con la logica e l’opinione popolare. In una recente trasmissione di “Piazza Pulita” su La7, il magistrato Davigo ha affermato che la parola “giustizialista” è “priva di senso comune”. Dopo aver negato in tal modo l’evidenza, e cioè che esista un partito trasversale dei giudici, dice cose inquietanti per un garantista: “l’errore italiano, secondo me, è stato proprio quello di dire sempre aspettiamo le sentenze. Faccio un esempio pesante: se io invito a cena un mio vicino di casa, e lo vedo uscire di casa mia con l’argenteria nelle tasche, per invitarlo a cena non sono costretto ad aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo.” In questo sproloquio è evidente l’atteggiamento anti-intellettualistico (= io dico pane al pane e vino al vino, come l’uomo della strada, no?). Si tratta di una maschera, dietro cui si cela un fine ingegno manipolatore. Preferisco di gran lunga Carlo Ginzburg, il quale gioca a carte scoperte: il suo saggio è un modello di obiettività e di rigore. Dopo averlo letto, è impossibile schierarsi con il giudice che usurpa il ruolo dello storico strizzando l’occhio ai giustizialisti. Il caso Sofri è “un caso di giustizia vilipesa” che ci insegna molte cose. Studiandolo, “i cittadini potranno farsi un’idea del funzionamento concreto della giustizia. La democrazia, se non sbaglio, si esercita anche così.” Parole sacrosante, professore.

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