– di PATRIZIO PAOLINELLI –
Ho diversi amici che hanno figli adolescenti o iscritti ai primi anni di università. Con alcuni di questi ragazzi ho sviluppato un eccellente rapporto e parliamo dei più disparati argomenti. In numerose occasioni ho avuto modo di verificare che la loro visione del mondo è fortemente influenzata dal mito del self-made man. Il significato di tale mito è presto detto: rappresenta l’ideale dell’uomo che partendo dal nulla e in virtù dei propri esclusivi meriti raggiunge la ricchezza e il successo. Il corrispettivo femminile è il molto meno usato self-made woman e, in seconda battuta, donna in carriera. In ogni caso, si tratta di un racconto che ha una forte presa sull’immaginario collettivo e fa parte del più complessivo sogno americano in cui anche noi italiani veniamo allevati sin dalla più tenera età. Zio Paperone che accumula una fortuna colossale partendo da un misero cent è la versione fumettistica dell’uomo che si fa da sé. Nella realtà, se vogliamo fare un nome, Steve Jobs è considerato un uomo che senza un soldo e senza una laurea, ma con grande inventiva e volontà, ha creato dal nulla un impero economico nel settore hi-tech. E Jobs è presentato ai giovani che intendono fare fortuna nell’economia digitale come un esempio da seguire.
Giunti a questo punto di idealizzazione invito i miei ragazzi a porsi alcune domande: il mito del self-made man esprime davvero l’interesse di tutti? Cioè, se tutti tentiamo di diventare dei Paperoni o degli Steve Jobs ogni problema – personale e sociale – è risolto? Coloro che non credono in questo mito, o che non hanno la personalità adatta per realizzarlo, o che hanno provato a realizzarlo ma non ci sono riusciti che fine fanno? Sono possibili alternative? A queste domande potremmo aggiungerne altre. Per esempio: il successo e la ricchezza coincidono con la libertà? E se uno è felice conducendo una vita frugale? Senza pretendere di dare qui una risposta a ogni interrogativo proviamo a verificare a un primo livello se il mito del self-made man regge all’indagine critica.
Partiamo dall’architrave. E’ davvero possibile che un uomo si faccia da solo? In tutta evidenza no. Nessuno infatti raggiunge il successo in splendida solitudine. Per esempio, attori e cantanti hanno bisogno di un pubblico e di una filiera che permetta a tale pubblico di fruire dei loro prodotti artistici (teatri, cinema, Tv, Internet, pubblicità e così via). Un imprenditore avrà bisogno come minimo di: a) un certo numero di persone che lavorino per lui; b) un certo numero consumatori che acquistino i suoi prodotti/servizi. In termini generali avrà bisogno degli altri. Cioè di una società. Dunque più propriamente si dovrebbe dire Uomo che si fa da sé … per mezzo degli altri. Ma se accettiamo che questa formula sia più rispettosa dell’andamento reale delle cose, allora dobbiamo anche accettare che il self-made man deve necessariamente instaurare dei vantaggiosi rapporti di potere affinché gli altri siano dei mezzi utili al conseguimento dei suoi fini. Il mito permette di far apparire come naturali questi rapporti di potere. E se non basta il mito a sostenere le virtù della disuguaglianza sociale arriva in soccorso la filosofia liberale di cui il self-made man è il prodotto storico.
L’uomo che si fa da sé è un mito della modernità. Tra i suoi progenitori troviamo Robinson Crusoe. Celeberrimo personaggio letterario che rappresenta l’idealizzazione dell’individualismo possessivo tipico della borghesia. Come è noto, nel romanzo di Defoe, Robinson naufraga su un’isola deserta. Fa l’inventario di ciò che si è salvato dal naufragio, costruisce con le sue mani quanto gli serve per sopravvivere, impara a modellare e a cuocere vasi e mattoni, addomestica animali, calcola i tempi di lavoro e appena entra in relazione con un altro essere umano come si comporta? Come un conquistatore. Gli impone un nome ridicolo, “Venerdì”, la prima parola che gli insegna è “Padrone” e lo riduce allo stato di servo. Alla fine della storia Robinson non ha fatto altro che riprodurre in un’isola incontaminata il modo d’essere e di agire del borghese presentandolo però come un dato naturale. Marx critica questa posizione rilevando che col suo lavoro il naufrago non produce merci né valore di scambio per il semplice fatto che nell’isola deserta non c’è un mercato. Dunque tutti i mestieri che Robinson esercita (falegname, vasaio, contadino ecc.) costituiscono un’attività priva di valore sociale, in parole povere sono avulsi dalla realtà, dall’effettivo funzionamento del modo di produzione capitalistico.
Attraverso la favola dell’individuo isolato che dal nulla crea la civiltà trova giustificazione il colonialismo europeo e Robinson diventa l’incarnazione del progresso. Ossia di un’ideologia che ipotizza l’evoluzione costante della società: le generazioni del futuro godranno di un maggiore benessere rispetto a quelle del presente (per non parlare di quelle del passato). Siamo così giunti a uno snodo decisivo: è in nome del progresso che si giustifica l’esistenza stessa del self-made man. E qui arrivano le brutte notizie. A prescindere dal colonialismo, l’ideologia del progresso entra in crisi dopo le carneficine della Prima Guerra mondiale, sopravvive a stento dopo le atomiche della Seconda, fino a essere dichiarata estinta alla fine del Novecento. Un ventenne dei nostri giorni non l’ha conosciuta se non sui libri perché l’oggi è peggiore di ieri e in pochi pensano che il domani sarà migliore dell’oggi. Dinanzi al crollo della fiducia nei confronti dell’ideologia del progresso il mito dell’uomo che si fa da sé si trova in un mare di guai. Come uscirne? Con altri miti. Ad esempio quello della libera concorrenza. Senza entrare nel merito di quest’altro mito basti qui osservare che non solo nella realtà nessuno basta a se stesso, ma neppure il mito del self made man è autosufficiente.
Il mito dell’uomo che si fa da sé è poco pluralista. Infatti guarda quasi esclusivamente alla vita economica. Ma c’è vita anche oltre l’economia. L’individualismo si esprime anche al di là della logica del dare e dell’avere. Per esempio, grandi dirigenti dei partiti socialisti e comunisti del secolo scorso provenivano da classi popolari, dalla piccola e media borghesia. Certo, Lenin proveniva da una famiglia benestante. Ma divenne il più importante rivoluzionario del ‘900 e leader indiscusso della prima nazione socialista al mondo. Lenin può essere considerato un self-made man? Evidentemente no. Perché la sua pur oggettiva promozione sociale non era finalizzata al profitto personale. Facciamo un esempio meno altisonante. Se un bracciante agricolo diventa guardia giurata rappresenta un self-made man? No. Perché tale titolo implica un notevole successo economico, un salto di numerosi gradini nella scala sociale. In questo senso se un bracciante agricolo diventa un affermato imprenditore allora può essere considerato un self-made man. Ma fino a un certo punto perché il mondo dell’uomo che si fa da sé è a maglie molto strette, è più esclusivo che inclusivo.
Il titolo di self-made man è prerogativa di un’élite. E all’interno dell’élite è appannaggio solo dei fondatori. John Davison Rockefeller, capostipite della celebre famiglia di imprenditori statunitensi, può essere annoverato tra gli uomini che si sono fatti da soli. I suoi eredi no. Ma hanno tutto l’interesse a mantenere viva la leggenda del fondatore soprattutto per coloro che non fonderanno mai una dinastia. Se si considera che oggi l’élite economica detiene il maggior potere sociale e ha conquistato l’egemonia culturale si spiega da sé perché il mito del self-made man abbia una così forte presa sia su chi ha obiettivi economici molto più modesti rispetto a quelli di fondare una dinastia imprenditoriale sia sul modo di pensare dei giovani. Verso tutti il mito dell’uomo che si fa da sé presenta come eterne le attuali regole del gioco economico. E più tale gioco si dimostra poco divertente, molto problematico e persino dannoso più funziona. Un esempio che riguarda da vicino proprio i giovani: più il lavoro manca, più si fa precario (e il lavoro è imprescindibile per raggiungere lo status di self-made man) più il mito dell’uomo che si fa da sé si rafforza. Sembra un paradosso ma è spiegabile: quello che non ti dà la realtà (cioè il lavoro) te lo dà il mito (cioè il self-made man).
C’è posto per tutti nel paradiso dei self-made man? Purtroppo no. Immaginate un mondo di imprenditori di successo spuntati come funghi dal nulla. Sarebbe un inferno più che un paradiso. L’ecosistema del pianeta collasserebbe a causa dei troppi consumi, dovremmo importare manodopera aliena perché quella terrestre non basterebbe, o delegare parte della produzione ai robot. Ma si sa un robot tira l’altro e alla fine ci troveremmo con moltitudini di disoccupati. Dunque, anche volendo, non tutti possono diventare self-made man. In definitiva, nel suo inverarsi il mito dell’uomo che si fa da sé sorride a pochi. Per noi comuni mortali rimane l’incitamento a lavorare sempre più sodo, a diventare imprenditori di noi stessi e a sopraffare i nostri concorrenti in mercati sempre più instabili.
Mentre il futuro è sempre più incerto il mito offre ai suoi credenti aspettative smisurate. E’ vero, non possiamo più sperare nel progresso sociale ma in quello tecnologico sì. Il problema è che un progresso tecnologico senza un conseguente progresso sociale non è un progresso. E questa è la situazione attuale. Ma non approfondiamo e restiamo nei paraggi dell’immaginario collettivo. Ecco allora che il mondo dell’hi-tech e quello dello spettacolo sono presentati dal sistema dei media come le arene dove è possibile arricchirsi in fretta: per i Robinson 2.0 è sufficiente avere talento, una volontà di ferro e tanta voglia di lavorare. Nella realtà in quelle arene solo un’esigua minoranza ha successo; la maggioranza resta indietro o vive nel precariato e nella frustrazione. Ma il potere del mito sta nel trasformarsi in voce interiore: se siamo convinti di vivere in un mondo in cui tutti possono diventare self-made man, allora ci comportiamo come se quel mondo fosse reale anche se non lo è. In quanti sognano di diventare i nuovi Bill Gates o Mark Zuckerberg? In quanti sognano la business idea vincente, la start-up di successo, il video virale? In quanti sognano di diventare strapagati attori, cantanti, calciatori? In tanti. Ma dato che gli insuccessi sono di gran lunga più numerosi dei successi non si vede per quale motivo i perdenti dovrebbero continuare a credere nel mito dei vincenti. Per raccogliere sfide impossibili? Per sentirsi perennemente inadeguati? Anche dal punto di vista imprenditoriale non è un buon affare.