– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
È il nuovo mantra esposto in striscioni colorati sulle facciate delle case di mezz’Italia. Oggi, in un film o fiction su due è inevitabile imbattersi in questa frase: andrà tutto bene. Il sogno del lieto fine che ormai ci attanaglia inchiodandoci ad una vita reale divenuta drammaturgia e a una drammaturgia trasformatasi in vita reale. Non c’è situazione drammatica che sfiori la tragedia in cui qualcuno non dica a colui o a colei che ne è la vittima che “andrà tutto bene”. A riprova del fatto che viviamo ormai in una sovrarealtà che è più vicina a una fiction televisiva che alla vita stessa. Come nel mondo delle fiabe o dei romanzoni d’appendice ottocenteschi e d’avventura, accogliamo come nostra la dualità del mondo: bene-male, vita-morte, amore-odio. Che altro abbiamo appreso dall’evoluzione della civiltà e della coscienza se non la semplice purezza di questa triade di binomi? Qual è il lascito principale del XX° secolo se non il principio di realtà che, ad esempio, in letteratura, come nelle arti visive o in musica ha significato, innanzitutto, la perdita della certezza. Il dubbio che scava nelle strutture invisibili della conoscenza.
Pensiamo per un momento al fatto se, per un paradosso, uscendo di casa, trovassimo su altre facciate di case questa scritta: Grazie virus! Che lo volessimo o no, sarebbe come svegliarsi, improvvisamente, da un sogno, dall’illusione di vivere nel sogno del benessere, del mercato come Dio vivente, perciò l’altro Dio, dove ogni cosa deve essere al suo posto, dove la certezza di avere sconfitto il virus porta a sentirsi come se avesse vinto la propria squadra di calcio, dove la velocità ha spazzato via la lentezza e il silenzio, dove anche la cecità, la malformazione e la morte si possono cancellare con un sinonimo o con un semplice eufemismo. Perchè Grazie? Perché il virus ci ha mostrato finalmente chi siamo, ci ha fornito col suo procedere invisibile e inesorabile, il riflesso di ciò che non vogliamo smettere di essere, perché non sappiamo esattamente ciò che siamo se non nella misura in cui otteniamo la riconoscibilità dagli altri, come premio per lo sforzo di voler esistere senza fare nulla per l’esistenza degli altri e per la nostra, in corsa per riafferrare il virus della normalità.