Le diseguaglianze nella ricostruzione economica

– di FRANCO CAVALLARI –

Similmente alla maggior parte degli altri Paesi, l’Italia attraversa una fase della pandemia da Coronavirus in cui non è ancora chiaro quando e come, superati gli aspetti sanitari più critici del contagio, potrà iniziare la ricostruzione del tessuto economico devastato dalla recessione incombente. Il Governo, impegnato per ora in un’opera fondamentalmente conservativa del tessuto produttivo esistente, è sollecitato da più parti ad iniziare una riflessione sulle linee guida da seguire nella progettazione economica e finanziaria del dopo-virus. Non insensibile all’argomento, l’esecutivo ha messo in piedi una “task force” abbastanza composita guidata da Vittorio Colao, incaricata di fornire pareri tecnicamente argomentati in materia di graduale ricostruzione dell’economia del Paese, un’azione piuttosto complessa caratterizzata da un grado di difficoltà tecnico-politica decisamente molto elevato.

Aldilà dei pareri tecnici di detto organismo, le cui competenze saranno ulteriormente specificate in modo da meglio armonizzare la sua opera con il normale lavoro di indirizzo della P.A., sarebbe utile ed opportuno che anche l’insieme delle forze politiche iniziasse fin d’ora a riflettere in merito agli orientamenti generali di politica economica che dovranno presiedere alla ricostruzione economica e sociale del Paese. Si tratta di dare contorni specifici al “cambio di passo” nel modo di concepire l’attività economica e non solo; vale a dire di delineare gli assi portanti dell’economia “post pandemia”, che presiederanno la costituzione del nuovo assetto produttivo del Paese.

Tra le linee-guida economico-sociali concernenti la nuova configurazione produttiva, auspicabilmente formulate in armonia con i nuovi e più sostenibili orientamenti di sviluppo dell’economia mondiale e della società civile, un aspetto fondamentale riguarda la riduzione delle diseguaglianze. Da almeno un trentennio, il coefficiente indicatore della disomogeneità economica e sociale nella distribuzione interna del reddito e della ricchezza è cresciuto sia nelle società industriali, sia in una parte considerevole del terzo mondo, fino a mettere in pericolo gli architravi della tenuta sociale.

Malgrado le tenaci obiezioni dei cultori del libero mercato, il postulato secondo cui, in linea generale, esiste una correlazione inversa tra possibilità di crescita ed eccessive diseguaglianze era già socialmente ed economicamente maturo fin dagli ultimi decenni del ‘900. In quel periodo la  consapevolezza di questo assunto trovava fondamento dottrinale nelle rigorose analisi storico-economiche del Premio Nobel per l’economia J.E. Stiglitz 1 e dell’altro Premio Nobel P. Krugman, nonché nell’insieme delle ricerche di numerosi altri eminenti studiosi, che hanno introdotto nelle discipline economiche il principio secondo cui incisive politiche redistributive, inserite in contesti di grandi diseguaglianze, oltre ad allentare la tensione sociale, stimolano efficacemente la ripresa economica.

Dal punto di vista delle esperienze storiche, il testimonial fondamentale di questo principio è costituito dallo sviluppo economico trentennale conseguito dagli USA nel New Deal del XX secolo, un periodo caratterizzato da una “grande compressione” dei redditi 2 e da una persistente legislazione antitrust orientata precipuamente alla riduzione delle diseguaglianze. Terminata con la crisi di inconvertibilità del dollaro del 1971 e seguita da un lungo periodo di instabilità internazionale di natura energetico-finanziaria, questa fase della storia economica mondiale è sfociata nel processo di globalizzazione degli anni successivi alla caduta del muro di Berlino, un escursus storico che, in qualche modo, ha contribuito alla crisi epocale del 2008. Non va però dimenticato che, con tutti i suoi difetti, la globalizzazione ha comportato una consistente diminuzione delle diseguaglianze a livello planetario, (in Asia due miliardi di persone sono uscite dalla povertà assoluta), anche se, per altri versi, ha favorito il permanere nella povertà di quasi altrettanti abitanti dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina. Sul piano delle diseguaglianze interne ai singoli Paesi, è opportuno, comunque, ricordare che in gran parte dei Paesi industrializzati e in vaste aree del terzo mondo la globalizzazione ha seminato i presupposti di un aumento generalizzato delle diseguaglianze nella distribuzione interna del reddito e della ricchezza.

La pandemia del Coronavirus ha focalizzato come meglio non si poteva la prospettiva che la globalizzazione ed il modello su cui si è fondato lo sviluppo dell’economia mondiale negli ultimi 50 anni richiedono correzioni fondamentali nell’impostazione economico-sociale attuale, fucina, peraltro, di ricorrenti crisi, devastanti per le economie occidentali e per una parte non trascurabile del terzo mondo. Malgrado le resistenze di alcuni governi, la spaventosa crisi recessiva che si profila all’orizzonte dell’economia mondiale come conseguenza della pandemia in atto sembra aver convinto gran parte dell’establishment mondiale che un cambiamento radicale s’impone. Sul nuovo modello di sviluppo le idee restano ancora inevitabilmente confuse, ma quasi tutti i governi, di qualunque colore politico, non riescono più a negare la valenza positiva del Welfare, almeno nei suoi aspetti sanitari e di sostegno al reddito e all’occupazione.

Per quanto riguarda l’Italia, le statistiche dell’OSCE indicano che l’economia italiana, insieme a quelle degli USA e della Gran Bretagna, occupa i primi posti tra i Paesi industrializzati nel ranking delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. E se nel post pandemia il nostro Paese vorrà intraprendere con decisione il sentiero della crescita, unico strumento in grado di attenuare la spaventosa posizione debitoria della finanza pubblica, l’esempio del New Deal e della riduzione delle posizioni di rendita dovrà costituire l’asse portante della sua ricostruzione economica per almeno i prossimi 5 anni.

Si tratta di un orientamento molto impegnativo, che non presenta alternative se non quella dell’insolvenza cronicizzata, a cui nei momenti più critici si può penosamente tentare di porre rimedi provvisori. Il corollario più impegnativo della ricostruzione post Coronavirus resta, comunque, per un sistema politico malandato come quello italiano, la compattezza delle forze politiche, al di la delle legittime differenze; compattezza nella realizzazione di un patto sociale volto al superamento nel tempo della situazione di stallo in cui rischiamo di avvitarci. Vogliamo sperare che questa prospettiva di default sia solo il frutto di una visione pessimistica, ma dobbiamo ammettere almeno il sospetto che essa rappresenti il frutto di aspettative razionali in un contesto internazionale che rischia una sconvolgente deriva.

Volendo limitarci a considerare solo l’aspetto più eclatante della situazione italiana, non possiamo esimerci dal valutare la circostanza che alla fine del 2020 il nostro prodotto interno lordo arretrerà di un buon 10% (equivalente ad una perdita di circa 180 Mld), con un disavanzo di bilancio superiore al 12% del PIL che proietta il nostro Debito pubblico oltre la soglia del 160% del PIL. Tutto ciò è stato inevitabile per finanziare un minimo di attività economica e non affogare completamente nella recessione, ma non dobbiamo illuderci che non abbia un costo in termini di fardello sulle spalle delle prospettive di crescita.

Si tratta di una realtà destinata a protrarsi per lungo tempo, durante il quale il Prodotto lordo, seppur in ripresa, non potrà offrire margini in grado di migliorare significativamente la situazione, caratterizzata da una serie di gravami insostenibili. Una situazione innegabilmente ingestibile senza l’acquisto sul mercato secondario di una quota non trascurabile dei titoli pubblici italiani da parte della BCE; interventi che, realisticamente, non potranno proseguire all’infinito, come lascia chiaramente presagire la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 6 aprile scorso. Su questo punto, tenuto conto del volume delle risorse in gioco, non possiamo limitarci a stipulare solo prestiti al nostro sistema, bisognoso di colmare almeno una parte delle proprie lacune con immissione di danaro fresco in conto capitale proveniente principalmente dal proprio capitale finanziario privato. Sarebbe, d’altronde, impensabile nel medio termine trascinare il fardello delle nostre carenze di capitali freschi gravante sulle future generazioni attraverso periodiche e defatiganti trattative con l’Unione (o con la Germania), avente per oggetto il rinnovo anno dopo anno di estenuanti clausole di salvaguardia riguardanti il nostro disavanzo pubblico.

Solo con un impegno a tutto campo, che ponga in gioco tutte le nostre migliori energie, tra cui dobbiamo considerare fondamentale una gestione rigorosa del problema, insieme ai nostri partners europei, potremo affrontare con successo questo leviatano virale che ha colpito all’improvviso l’intero pianeta. Fuori da un simile modello di crescita, improntato alle riforme rigorose cui si è accennato, il nostro Paese non potrà gestire con dignità la recessione incombente e trovare quel cambio di passo della struttura produttiva che tutti invocano a gran voce. Un cambio di passo che ci consenta di ricollocare nella retta prospettiva il welfare sanitario, la ricerca scientifica e la cultura universitaria, chiedendo, a giusto titolo, il sostegno della solidarietà europea per il nostro Paese e per Paesi dell’Unione che saranno più toccati dall’andamento economico negativo dei prossimi anni.

 

 

1) Cfr. in proposito J.E.Stiglitz “Il prezzo della diseguaglianza -come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro” Ed. EINAUDI, Torino 2018

2) “La Grande Compressione (dei redditi e delle retribuzioni-Ndr) riuscì ad equiparare la distribuzione dei redditi per circa 30 anni; e l’era dell’eguaglianza fu anche un periodo di prosperità senza precedenti per il nostro Paese, che non siamo più riusciti a creare nuovamente” Cfr. P. Krugman – “La coscienza di un liberal“ Ed Laterza , Bari 2009

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