Coronavirus: “Ecco le differenze e le similarità fra il Sars CoV2 e la comune influenza”. Conversazione con il Prof. Vincenzo Puro

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

Continua la nostra attività di informazione sul Sars CoV2, conosciuto comunemente come coronavirus. Questa volta abbiamo conversato con il Prof. Vincenzo Puro, Direttore UOC Infezioni emergenti e Centro di riferimento AIDS dell’Ospedale Spallanzani di Roma.

Professor Puro, facciamo il punto della situazione. Il Sars CoV2 che tipo di contagiosità ha rispetto all’influenza stagionale?

Il virus responsabile di COVID-19 e quello dell’influenza si manifestano in maniera simile. Entrambi causano disturbi respiratori, che possono presentarsi in modi molto diversi: i pazienti possono essere asintomatici, avere sintomi di livello contenuto, fino ad arrivare a una patologia grave e alla morte. Virus dell’influenza e SARS-CoV 2 condividono la modalità di trasmissione: contatto, goccioline respiratorie, materiale contaminato dalla persona infetta. In epidemiologia la contagiosità si misura in primo luogo con il cosiddetto “numero o tasso di riproduzione di base”, “erre con zero” (R0), di cui si è fatto e si fa un gran parlare, ovvero il numero medio di persone che un individuo infetto può contagiare (casi secondari). Ad esempio se l’R0 di una malattia X è 2, significa che in media un singolo malato infetterà due persone. Naturalmente, maggiore è il valore di R0 e più elevato è il rischio di diffusione di una patologia infettiva; se invece il valore di R0 fosse ricondotto ad un valore inferiore ad 1 significa che l’epidemia può essere contenuta. Per l’influenza questo numero è stimato pari a 1,3 circa, mentre per il SARS CoV2 tra 2 e 2,5 anche se nelle fasi iniziali è stato stimato un valore più alto tra 3 e 5. Un altro importante punto di differenza da considerare è la velocità di trasmissione. L’influenza ha un periodo di incubazione, cioè il tempo dal contagio alla comparsa dei sintomi, più breve rispetto a COVID-19: 1-4 giorni per l’influenza e fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni per COVID-19. Anche il tempo che intercorre tra i casi successivi (che si chiama intervallo seriale) è più breve per l’influenza (3 giorni) che per SARS CoV2 (5-6 giorni). Ciò significa che l’influenza può diffondersi più velocemente di SARS CoV2. R0 dipende in realtà da numerosi fattori tra i quali, ad esempio, il numero dei contatti che una persona infetta ha con altre persone. Per questo motivo, nella fase attuale in cui non abbiamo a disposizione un vaccino e la popolazione è praticamente tutta suscettibile, la possibilità di ridurre i contatti di una persona infetta con altre persone aiuterebbe a ridurre R0 ed al contenimento della epidemia. È quello che si cerca di raggiungere con il precoce riconoscimento dei casi e dei contatti ed il loro isolamento e con le misure di distanziamento fisico: un valore di R inferiore ad 1 sembrerebbe al momento raggiunto nel nostro Paese grazie agli interventi effettuati. Può però risalire se si ritornasse alle condizioni iniziali.

Sempre relativamente al Sars CoV2, il suo tasso di mortalità diretta – come, cioè, causa del decesso e non come causa concomitante – è alto o basso rispetto a quanto i vari media ci comunicano?

Il virus agisce sia con meccanismi diretti e, più spesso, indiretti, determinando risposte anomale nell’organismo ospite.  Certo che i decessi osservati un po’ in tutti i paesi, compreso il nostro, sono in gran parte avvenuti in persone che presentavano altre malattie preesistenti o un’età avanzata; il virus ha in questi casi certamente svolto un’azione precipitante. Vorrei però precisare alcuni concetti. Per tasso di mortalità si intende la proporzione tra il numero di morti per una malattia e la popolazione suscettibile in un dato periodo, che per un nuovo virus è evidentemente tutta la popolazione. Iniziano ad essere disponibili i dati dell’ISTAT che dimostrano un eccesso di mortalità rispetto a quanto atteso ed osservato negli anni precedenti nello stesso periodo di tempo proprio in questi mesi di pandemia da SARS CoV 2. La letalità di una malattia si misura invece come proporzione (o tasso) tra numero di decessi per una determinata malattia (numeratore) sul totale delle persone che hanno la stessa malattia (denominatore), in un determinato periodo di tempo. Giornalmente la Protezione civile comunica il numero dei decessi osservati sul totale selle persone che sono risultate positive al tampone dall’inizio dell’epidemia.  La elevata letalità calcolata con questa modalità, circa il 12%, è quindi motivo di ampio dibattito anche scientifico. Tra le cause identificate ha certamente importanza la struttura demografica del nostro Paese, caratterizzata da una elevata numerosità della popolazione di età avanzata. Altri fattori però possono spiegare almeno in parte questo dato, che ci diversifica da altri paesi anche europei. In primo luogo la numerosità delle persone sottoposte a tampone diagnostico e la loro selezione in quanto sintomatiche e spesso più gravi. Questo ha comportato probabilmente che solo parte delle persone realmente infette sia stata identificata, aggravando il tasso di letalità. Gli studi futuri di popolazione, soprattutto con test sierologici validati, analizzando estesamente la diffusione dell’infezione potranno fornire dati più attendibili sul quale calcolare la letalità.

Per quel poco che ne so io, le misure restrittive in caso di pandemie vengono applicate sulle persone infettate e sui soggetti a rischio – per età o altre patologie. Come mai, in questo caso, si è deciso di rendere valide le restrizioni anche per i soggetti sani – cioè non infettati? Lei le condivide o avrebbe agito diversamente?

Le condivido in gran parte. Le indicazioni “restrittive” fanno parte delle cosiddette misure non-farmacologiche, cioè quelle che non prevedono l’utilizzo di farmaci e/o vaccini, mirate a rallentare e mitigare la diffusione di un nuovo virus nella popolazione. Le misure non-farmacologiche sono utilizzate per ridurre il picco di intensità di una epidemia con un elevato numero di casi concentrati in un breve periodo di tempo, per guadagnare tempo per lo sviluppo di farmaci o vaccini e per preservare l’efficienza del sistema sanitario: ridurre il numero di persone che “nello stesso periodo” necessitano di ospedalizzazione o di terapia intensiva al fine di non oltrepassare la soglia di capacità del sistema. Esse rappresentano un ben noto strumento negli interventi di sanità pubblica, soprattutto nelle fasi di contenimento di una epidemia o pandemia, ed includono in parte sostanziale il pronto riconoscimento dei casi ed il loro isolamento, così come l’indagine per l’identificazione dei contatti dei casi e le misure di quarantena o perlomeno di sorveglianza nei loro confronti. Ancora, le limitazioni dei viaggi e le chiusure delle frontiere così come le ormai ben note misure di distanziamento sociale e fisico. La scelta di istituirle in Italia, nel loro insieme, così come nella maggior parte dei paesi coinvolti dalla pandemia da SARS CoV2, si è resa quindi necessaria soprattutto nella prima fase caratterizzata dalla mancanza di conoscenze certe su questo nuovo virus. D’altronde di fronte ad una pandemia da un nuovo virus, tutta la popolazione risulta suscettibile e se da un lato, fortunatamente, la maggior parte delle persone contrae un’infezione da SARS Cov2 non grave, è altrettanto importante limitare l’impatto sulle strutture sanitarie delle forme che necessitano di ricovero, come purtroppo è avvenuto nel nostro Paese prima che le misure “restrittive” potessero avere effetto: i dati hanno dimostrano una numerosità non indifferente di casi di COVID-19  anche in persone “non a rischio” per età avanzata o altra patologia. Certamente le misure restrittive non rappresentano le uniche da utilizzare ed arriva il momento in cui è necessario trovare un equilibrio tra le restrizioni e le graduale ripresa delle attività produttive, lavorative e di vita: la cosiddetta fase 2 di cui si sta discutendo in questi giorni. Al momento non si può escludere però che si rendano necessarie ri-attivazioni “intermittenti” delle misure di distanziamento sociale di durata da definire sulla base dell’intensità di diffusione del momento.

Chi contrae il Sars CoV2 può correre il rischio di una recidiva? Di contrarlo nuovamente e con eguale intensità?

Non lo sappiamo con certezza. Ci sono segnalazioni, non verificate, di casi di persone che ritenute guarite da COVID-19 si sarebbero ammalate di nuovo, non si sa se per reinfezione o recidiva. In definitiva sappiamo molto poco circa la risposta immunitaria contro il virus ed anche per questo dato si dovrà attendere evidenze più certe.

 Gli asintomatici puri, come Lei ha affermato in una recente intervista, se ho ben compreso non sono contagiosi per gli altri, perché non emettono le goccioline causa di trasmissione del virus in quanto non hanno sintomi. Supponiamo che vi sia un soggetto falso asintomatico, che cioè risulti da apposito test abbia già avuto il Sars CoV2 ma privo di sintomi in quanto il suo sistema immunitario lo ha debellato, questa persona può essere contagiosa oppure no avendo sviluppato le immunoglobuline?

E’ ormai accertato che soggetti asintomatici, o più spesso con sintomi molto lievi e generici, albergano il virus; non altrettanto dimostrato è il livello della loro contagiosità rispetto alla fase sintomatica. Ciononostante anche per loro, quando individuati, valgono le indicazioni di isolamento previste per ridurre la trasmissione dell’infezione. Per quanto riguarda il caso da lei descritto, è probabile che una persona che ha eliminato il virus (negativo al tampone) ed ha sviluppato immunoglobuline specifiche, cioè anticorpi,  non sia contagioso. Purtroppo però le metodiche attualmente disponibili sia per la ricerca del virus che per quella delle immunoglobuline non sono perfette e, ancora una volta, le conoscenze su questa infezione non sono ancora tali da avere certezze assolute a riguardo.

Se, come da più parti si dice, è già disponibile un vaccino per il Sars CoV2 – benché in via di sperimentazione -, può esso rappresentare la soluzione definitiva alla diffusione di questo virus? Glielo chiedo perché i virus ad RNA – come è il Sars CoV2 -, per quel poco che ne so, sono estremamente soggetti a mutazione genetica e quindi, proprio per questo, un vaccino efficace potrebbe non trovarsi.  

Certamente un vaccino rappresenterebbe, se efficace, un’arma risolutiva. Anche il virus dell’influenza, ugualmente ad RNA, muta pressoché di continuo, di anno in anno e anche nello stesso anno nel suo passaggio da un emisfero all’altro. Per questo motivo ogni anno la composizione del vaccino è aggiornata per adattare la sua produzione al virus parzialmente mutato e ci si deve rivaccinare. Per lo stesso motivo l’efficacia del vaccino antinfluenzale non è assoluta ma, anche se parziale, significativa. Anche il morbillo è un virus a RNA ma la vaccinazione antimorbillo ha un’efficacia certamente più stabile e duratura. Non sarei così pessimista. Le migliori aziende e i migliori professionisti sono impegnati sulla ricerca di un vaccino e di una componente comunque stabile del virus per superare eventuali problemi di mutazioni, che peraltro al momento non sono emerse in maniera significativa.

L’utilizzo del Tocilizumab, o della clorochina, o del plasma dei soggetti affetti da Sars CoV2 ma guariti, rappresentano già dei protocolli di cura efficaci oppure no?

Al momento sono tutti farmaci in fase di valutazione. Per raggiungere risultati certi è necessario seguire il percorso della ricerca clinica accelerandone le componenti regolatorie quanto più possibile.  Questo è peraltro quanto l’Agenzia Italiana Farmaco sta coordinando nel nostro Paese.

Quale prevede sia l’evoluzione futura del Sars CoV2: potrebbe finire come la prima SARS, o come la MERS oppure come l’influenza aviaria? E potrebbe nel prossimo futuro – da ottobre di quest’anno per intenderci – causare semplicemente un raffreddore e nulla di più?

E’ troppo presto per dirlo. I virus a cui ha fatto riferimento sono “semplicemente” virus diversi da SARS CoV 2. Il coronavirus della SARS si è probabilmente rintanato nel suo habitat originario,  mentre quello della MERS è tutt’ora presente senza aver dimostrato, per fortuna, capacità epidemiche o pandemiche.  I vari virus dell’influenza aviaria anche essi sono tutt’altro che scomparsi, ma fortunatamente non hanno acquisito un’efficiente capacità di trasmissione da uomo a uomo. In assenza di interventi farmacologici, i fattori in gioco sono diversi e per la maggior parte non ancora noti. Non sono un indovino e ritengo che di fronte ad un nuovo virus bisogna avere la pazienza e direi la tenacia di cercare evidenze solide prima di avventurarsi in previsioni.

Le calde temperature estive costituiscono un anti Sars CoV2 naturale?

In generale l’incidenza di malattie dovute a virus respiratori ha una certa stagionalità e diminuisce nelle stagioni calde. Questo ha molte ragioni e solo in parte è dovuto a caratteristiche proprie dello specifico virus. Ad esempio, un’intensa diffusione nel periodo autunnale e invernale riduce il numero di persone più suscettibili che possono infettarsi nella primavera/estate, comportando un minor numero di casi. Ancora, un’eventuale riduzione nel periodo estivo è in parte ascrivibile ai diversi comportamenti più o meno favorevoli alla diffusione interumana, per esempio passare meno tempo in luoghi chiusi. Certo che i dati finora disponibili non permettono però di affermare che questa riduzione sarà valida anche per SARS CoV 2, che si è diffuso anche nei paesi che stanno attraversando la stagione estiva quali Australia o Iran. Il suo “cugino” MERS è diffuso in paesi sostanzialmente a clima temperato/caldo.  Purtroppo anche in questo caso dobbiamo accettare che non conosciamo la stagionalità di SARS CoV 2 semplicemente perché questa è la sua prima stagione; ritengo veramente poco probabile che “scompaia” in estate. Inoltre, in considerazione della ancora ampia suscettibilità della popolazione, un’eventuale parziale riduzione della efficienza di trasmissione nel periodo estivo potrebbe non portare a una riduzione significativa della numerosità dei casi senza la concomitante adozione dei principali interventi di precauzione e prevenzione. Infine, una temporanea riduzione “naturale” nel periodo estivo non ci garantisce affatto da una seconda ondata nel periodo autunnale/invernale.

(NOTA. L’intervista con il Prof. Puro si è svolta via email e comprendeva ulteriori tre domande a cui non è stata data risposta. Le riporto qui di seguito:

1) Lei condivide le cifre che, ogni giorno, vengono comunicate nel bollettino della Protezione civile? Perché è uscito un articolo di recente –   https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-numeri-inattendibili-si-e-vi-dimostriamo-perche-665108.html – che ha mostrato l’inesattezza dei numeri dati quotidianamente. In base alla sua esperienza diretta, cosa ha da dirci in proposito?

2) Si parla di fase 2 a partire dal prossimo maggio. Al di là di quello che vien detto, lei come la organizzerebbe questa fase e quanto prevede sia la sua durata?

3) Al di là del terrorismo praticato da giornali e media vari, si può star tranquilli e tornare a vivere normalmente?).

 

 

 

pierlu83

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