-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Fantasista è una parola che un tempo veniva usata con orgoglio nel mondo dello spettacolo, e da tutti: critici, attori, ballerini, musicisti. Chi entrava in una compagnia e aveva l’onore di fregiarsi di questo titolo, non aveva limiti e godeva di ammirazione, venerazione addirittura, da parte dei suoi colleghi e del pubblico.
Semplice il perché. Il fantasista poteva fare qualsiasi cosa: il comico, suonare uno strumento, cantare, ballare e offrire prove come interprete drammatico.
In questo momento storico, in cui il mondo teatrale purtroppo non splende più come un tempo né ha gli onori che gli andrebbero giustamente tributati, i fantasisti non solo sono divenuti rari, ma il più delle volte vengono confusi da platee approssimative e impreparate con persone che si adattano, alla meno peggio, a fare un po’ di tutto ma con scarsissimi e deludenti risultati.
Non sempre, però, mala tempora currunt. Soggiornando in un villaggio di montagna dove ho incontrato una equipe di animazione fatta di autentici professionisti, mi sono imbattuto in uno degli ormai rari e bravissimi fantasisti che, per fortuna, ancora calcano le nostre scene. Il suo nome è Marco Vannucci.
Egli è in grado di prendere in mano una chitarra e suonarla con naturalezza. Se intona una canzone, lo fa con disinvoltura, trovandosi a proprio agio nei diversi generi (dal melodico al rock). Quando si cimenta a fare il comico, eccolo
pronunciare battute e costruire situazioni esilaranti e divertentissime. Se si tratta di affrontare situazioni sceniche che richiedono più introspezione, Vannucci non se lo fa ripetere due volte; e lo si vedrà assumere un tono di voce e un’espressione che impongono un’atmosfera meno spensierata e più riflessiva. E se gli si chiedesse di imitare un mito come, poniamo il caso, George Michael? Vannucci non si tira certo indietro. Ma la sua imitazione non assumerà mai la parvenza della caricatura o di una goliardica parodia; al contrario, si tratterà di un omaggio al mito emulato, fatto di rispetto e ammirazione ma – questo il pregio vero – letto e interpretato in chiave personale, attingendo dalle proprie esperienze e dalla propria fantasia, così ridisegnando il personaggio da un punto di vista squisitamente originale.
Il punto è: come fa il fantasista Vannucci a raggiungere questi risultati? A utilizzare diversi registri scenici e artistici con la stessa leggerezza e ogni volta con esiti ottimi?
L’ho osservato per qualche giorno con molta attenzione, sul palco e al di fuori, e sono giunto a questa conclusione. Per Marco Vannucci la scena non è mai un luogo dove esibirsi e basta. Al contrario, si tratta di un banco di prova al quale egli sottopone se stesso. Perché? Per sperimentare quanto ha appreso da anni di esperienza e consuetudine col palcoscenico; per intuire come superare e risolvere certe difficoltà – tecniche e interpretative – che un ruolo o un numero gli pongono davanti; per sapere come continuare a crescere artisticamente e umanamente; per arrivare a comprendere quale limite sottile trasforma il riso in pianto e viceversa.
Tutto ciò richiede un lavoro individuale immane, che deve per gran parte svolgersi in solitudine. Situazione che Vannucci non può concedersi del tutto, dato che deve per necessità professionale, oltre che per piacere, essere a contatto con le persone. Difatti mai l’ho visto negare un sorriso, uno scambio di battute più o meno rapido con chi lo fermava incontrandolo lungo un corridoio o al bar del villaggio. E tuttavia, sebbene in modo impercettibile, Vannucci sa quando è il giunto il momento di tornare nel suo guscio e riprendere a pensare e a creare (razionalmente e artisticamente). E quindi eccolo salutare l’ospite che lo aveva fermato, magari dandogli appuntamento a più tardi (promessa sempre mantenuta e mai disattesa). Perché il regno dei fantasisti è sì nel mondo scialbo e grigio nel quale viviamo quotidianamente. Ma quello dove essi realmente vivono e si sentono a loro agio ha un solo nome: arte. Che si tratti di musica o teatro; di parodia o recitazione; di genere comico o drammatico: poco importa. Tutto concorre a scandagliare la propria anima così comprendendola e, di conseguenza, a intuire quella del prossimo che si incontra anche semplicemente svoltando l’angolo della strada.
È da qui che l’arte, il talento, la profonda leggerezza, la spontaneità e la disinvoltura di Marco Vannucci traggono alimento per esprimersi al meglio, crescere e perfezionarsi nel tempo. È grazie a tutto questo (sommato ad un notevole bagaglio artistico-culturale) che Marco Vannucci è, a pieno titolo, un bravissimo – e per ciò stesso ancor più raro – fantasista delle nostre scene.